Fine spiegato semplice.
Non sembra verosimile la proposta delineata da Drucker, troppo favorevole a Israele per essere vera, ma non è l’unico a segnalare tale ammorbidimento per cui ne prendiamo atto (probabile che si stia trattando su una tregua di mesi, che dia spazio alla cessazione duratura delle ostilità, che non può non restare l’obiettivo insito del negoziato).
Più interessante, invece, il mutamento che segnala nel campo israeliano. Anzitutto, annota Drucker, il sentimento che si respira all’interno di Israele e delle forze israeliane è quello di un “trascinamento” delle cose, di un faticoso “stallo”. Peraltro, aggiunge, il piano di guerra prevedeva un conflitto annuale diviso in tre fasi.
Quella attuale è la fase 3, ma alla stessa sono state dedicate forze minori che alle prime due, da cui, secondo Drucker, lo stallo a Khan Yunis, dove si combatte da tre mesi, e le immani difficoltà per un eventuale attacco a Rafah (sperem, sarebbe catastrofico).
Il gabinetto di guerra di Israele è per l’accordo
Ma il passaggio più significativo è quello in cui accenna che anche nell’esercito si sente il bisogno di “una pausa” e quando descrive la situazione all’interno del gabinetto di guerra che, a quanto pare, sembra si sia convinto a un accordo con il nemico in cambio della liberazione degli ostaggi.
Se tale posizione di Gadi Eisenkot e Benny Gantz era nota da tempo, la novità è che a questo punto sarebbero favorevoli all’accordo, oltre al leader ultraortodosso Aryeh Dery, anche “il militante Yoav Gallant e il lealista Ron Dermer”. Insomma, Netanyahu sarebbe il solo a sostenere la sua “guerra senza fine”.
Nonostante tutto, il premier ha frecce al suo arco, tali da poter affondare il fragile vascello delle trattative, che naviga in acque più che tempestose. Consapevole che un accordo farebbe cadere il suo governo, dovendo affrontare l’ira dei partiti fondamentalisti, “Netanyahu sta improvvisamente inventando nuove condizioni, come la richiesta di ottenere i nomi degli ostaggi ancora vivi prima di qualsiasi accordo”, una richiesta “mai avanzata prima”, come rileva il generale Israel Ziv.
“Ebbene – conclude Drucker – quest’ultima condizione in realtà esiste solo sui media; nessuno ha avanzato formalmente tale richiesta. È questo il modo di Netanyahu di preservare la sua coalizione fino al momento della verità, quando dovrà finalmente accettare l’accordo?”.
Che qualcosa si muova lo segnala anche l’intervista del succitato generale Ziv pubblicata sul Jerusalem Post il 6 marzo, secondo il quale la guerra vera e propria sarebbe finita già due mesi fa, con la conclusione della campagna ad alta intensità ([leggi mattanza iniziale) e che lo scopo di disgregare Hamas è stato raggiunto (importante: solo così Israele può giustificare la fine delle ostilità).
“Si diceva che Israele avrebbe chiuso le sue operazioni militari entro gennaio – ha aggiunto il generale – poi dagli americani ha ricevuto una sorta di ‘proroga’ fino a marzo. Era abbastanza chiaro che quella di marzo, dal punto di vista americano, è una linea che non può essere superata”.
“Sia a causa della loro campagna [elettorale] che per la pressione internazionale, [gli Stati Uniti] non possono continuare a sostenere Israele […]. Pertanto, penso che la finestra del credito americano e internazionale si sia chiusa […]. Il credito internazionale verso Israele è finito”.
L’inizio del Ramadan e le esternazioni terroristiche del rabbino
Peraltro, il 10 inizia il Ramadam, con tutte le criticità che comporta proseguire la guerra nei giorni più santi dell’islam, sia nel ristretto ambito mediorientale che nel più grande agone globale,. Siamo a quasi 40mila morti ammazzati a Gaza, di cui 13mila bambini. E i bambini morti per fame e sete a causa della rescissione degli aiuti sono già decine. Insostenibile è dir poco.
Certo, c’è da accordarsi con un nemico che Israele, e l’Occidente, considera terrorista, ma si deve considerare che anche gli israeliani hanno i loro terroristi conclamati.
Il movimento khanista, a cui si ispira Torah unita, partito di governo guidato da Ben Gvir (a cui è affidato il ministero per la Sicurezza nazionale…), fu bandito in Israele e inserito nella lista del Terrore in America negli anni ’90, dalla quale fu rimosso solo nel 2022 per assecondare i desiderata di Netanyahu al quale servivano i loro voti (uno dei rabbini più autorevoli dell’ebraismo, Benny Lau, equiparò il movimento khanista al nazismo).
Non sono solo i militanti della Torah unita a offrire al mondo perle di feroce estremismo. È diventata virale la recente esternazione del rabbino Eliyahu Mali, che ha legittimato l’uccisione di donne e bambini palestinesi. Una ferocia ribadita da altri prima di lui e brandita dallo stesso Netanyahu quando, all’inizio dell’invasione di Gaza, evocò Amalek, una maledizione che comportava una punizione collettiva e definitiva.
Dividere il mondo in buoni e cattivi ha i suoi vantaggi in termini di propaganda, la realtà e più complessa.
Ci sia permessa un’ultima annotazione. Nei vari scontri tra Israele e palestinesi gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto i primi, ma mai sono stati tanto invischiati nelle loro guerre. Tante le spiegazioni, tra cui ovviamente la portata del massacro del 7 ottobre.
Tra queste, però, anche quella che si rileva da una pagina del Jerusalem post del settembre del 2023, che elencava i 50 ebrei più influenti del mondo. Dopo il Ceo di OpenAI, Sam Altman, al secondo posto figurava Netanyahu, al terzo il Segretario di Stato Antony Blinken… al 23° posto i leader dei due partiti ultraortodossi al potere, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.
Fonte: lantidiplomatico.it