Fine spiegato semplice.
Domenica 4 febbraio, la Commissione Ministeriale per gli Affari Legislativi israeliana ha presentato un disegno di legge che punisce con la reclusione fino a cinque anni chi nega o minimizza la narrazione israeliana ufficiale del 7 ottobre. A comunicarlo, tra gli altri, è il Jerusalem Post, che in un articolo scrive che la proposta è stata avanzata assieme ad altri due emendamenti, che, secondo la sezione news di Walla, dovrebbero venire discussi per l’approvazione preliminare questo mercoledì. La proposta di punire coloro che si oppongono alla narrazione israeliana degli attacchi del 7 ottobre aleggiava già da qualche mese e si colloca all’interno di un contesto generale di repressione e censura di coloro che si esprimono contro lo Stato di Israele. Che tale emendamento venga o meno approvato, non si può in tal senso evitare di porre in discussione la narrazione dominante che vede in Tel Aviv “l’unica democrazia del Medio Oriente”: negli ultimi anni vi sono infatti state tante riforme, proposte, ma anche solo casi di mancato contrasto attraverso strumenti legali di fenomeni di soppressione delle libertà del popolo palestinese, che non possono che definirsi illiberali.
La proposta di legge non appare nella sezione delle notizie del Governo israeliano, né di quella della Knesset, il parlamento monocamerale di Tel Aviv, poiché deve ancora venire discussa, anche se dal sito di quest’ultima e dalle diverse notizie sparse per il web non è ancora chiaro esattamente quando. La notizia viene piuttosto comunicata da giornali tanto israeliani quanto arabi, che comunicano che la proposta, avanzata dal parlamentare Oded Forer, è stata discussa ed approvata assieme ad altri due emendamenti; essa sancisce che “la negazione del massacro è un tentativo di riscrivere la storia”, e pertanto “l’espressione di supporto per gli atti dei terroristi richiede speciali, serie e immediate attenzioni da parte dello Stato”, che si tradurrebbero nella reclusione fino a cinque anni. Assieme alla proposta di Forer sarebbe stata approvata anche quella di Almog Cohen, che prevederebbe la deportazione dei familiari dei “terroristi” affiliati ad Hamas che sapevano dell’attacco del 7 ottobre, misura che “con una visione lungimirante salverà la vita dei cittadini israeliani”.
Questi due emendamenti, se venissero approvati, non sarebbero i primi ad andare contro la percezione comune secondo la quale Israele rappresenterebbe l’unico avamposto democratico del Vicino Oriente. Sempre in materia di libertà di espressione, basti pensare alla definizione di “antisemitismo” promulgata dall’IHRA, l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, la quale è recentemente stata adottata in Italia dal comune di Brescia: nel documento figurano parecchie definizioni del concetto di antisemitismo a dir poco dubbie, come quella che chiama antisemita chiunque faccia “paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti”. Questa voce, come tante altre, rientrano in quel processo di identificazione dello Stato di Israele con il popolo ebraico che viene portato avanti dall’ideologia del sionismo revisionista, di cui l’attuale Governo, in carica da quindici anni, è il più limpido esponente. Si noti in tal senso il progressivo processo di nazionalizzazione portato avanti da Netanyahu sin dalle piccole cose, che vanno dall’istituzione di nuove celebrazioni nazionali, alla nuova formula di giuramento diplomatico, fino alla repressione dei movimenti anti-Israele.
Eppure il processo di identificazione Israele = ebrei scalfisce solo la superficie della piega illiberale che Tel Aviv sta prendendo negli ultimi anni. In tal senso alcuni tra i casi più eclatanti sono certamente quelli che coinvolgono la negazione dei diritti dei palestinesi, a cui Israele ha imposto addirittura il controllo delle relazioni amorose, e il fervido contrasto contro tutti coloro che li sostengono. Senza necessariamente stare a guardare leggi e proposte di regolamentazione, basterebbe solo notare il silenzio nei confronti della violenza, denunciata dall’ONU, che i coloni cisgiordani muovono contro i cittadini palestinesi, o l’assente regolamentazione contro la distribuzione di armi in quegli stessi territori, dove Tel Aviv sta sostanzialmente conducendo una guerra non dichiarata. Le modalità illiberali e la guerra contro i palestinesi hanno anche toccato il settore dell’informazione, tanto che a inizio dicembre è stata presentata una mozione per chiudere tutte le operazioni del quotidiano Al Jazeera nel Paese, accusato di “incitare contro lo Stato di Israele”. Il trattamento che Tel Aviv riserva ai palestinesi sul proprio territorio, poi, ne è un’altra testimonianza: recentemente si è iniziato a discutere della possibilità di introdurre la pena di morte per i “terroristi”, mentre a gennaio è stato prolungata una misura temporanea che nega la possibilità di fare ricorso a un avvocato ai palestinesi imprigionati, misure che, messe insieme, potrebbero tradursi in una sostanziale condanna a morte senza processo. Proprio i palestinesi imprigionati, poi, vivono in condizioni di totale degrado sin dall’inizio della guerra, come dimostra la bolla del 18 ottobre con la quale si applicano “misure straordinarie” per far fronte al crescente numero di carcerati nelle prigioni israeliane, togliendo loro i letti e facendoli “dormire sul pavimento”.
La più limpida testimonianza dello stato di illiberalità in cui versa Israele è però quella relativa al tema della giustizia. In Europa siamo abituati a giudicare lo stato di evoluzione democratica delle istituzioni di un Paese guardando al suo sistema giuridico: numerosi sono gli Stati a cui l’Unione Europea ha tagliato i finanziamenti proprio perché dotati di un sistema giuridico visto come troppo poco indipendente; la narrazione comune gioca spesso con tali elementi, e mai sognerebbe di definire completamente liberale e democratico, per fare un esempio, uno Stato come l’Ungheria, che Wikipedia definisce “Stato autoritario”. Israele, però, non viene mai messo in discussione. Nonostante ciò, il 24 luglio 2023 è stata approvata la “bolla sulla ragionevolezza”, che nega agli organi giudiziari, “inclusa la Corte Suprema” di tenere udienza o aprire casi che mettano in discussione “il Governo, il Primo Ministro o un Ministro del Governo sulla ragionevolezza delle loro decisioni”. E con “‘decisione’ si intende qualsiasi decisione, incluse le nomine, o la decisione di astenersi dall’esercizio dell’autorità”. Il processo di identificazione Israele = ebrei, ha insomma compiuto un ultimo determinante passo: quello che ha sancito l’identificazione del Governo con lo Stato, tanto da rendere illegittima la contestazione della “ragionevolezza” delle sue scelte. E ai sensi della definizione di antisemitismo dell’IHRA, questo significa solo una cosa: che dire qualcosa di contrario al Governo di Tel Aviv, significa perpetrare atti della più deprecabile forma di razzismo che l’Occidente abbia mai conosciuto, cosa decisamente poco democratica.
[di Dario Lucisano]
Fonte: lindipendente.online