Fine spiegato semplice.
Il primo febbraio è stata definita la sentenza dell’ex ingegnere informatico della CIA Joshua Schulte: il trentacinquenne dovrà trascorrere in prigione i prossimi 40 anni della sua vita. La colpa cardinale di Schulte è stata quella di far trapelare a WikiLeaks informazioni sul come le intelligence americane stessero imbastendo lo spionaggio nell’era dell’internet delle cose, una denuncia roboante che molti hanno accomunato alle testimonianze emerse grazie a personaggi quali Chelsea Manning, Edward Snowden e Reality Winner.
La vicenda ha avuto inizio nel 2016, quando Schulte era impegnato a seguire per la CIA un dossier noto come “Vault 7”, ovvero un programma che si focalizzava sul consolidare strumenti e metodologie di hacking e di virus informatici utili a colpire gli apparecchi che vengono adoperati a livello domestico o nelle piccole-medie imprese. Nello specifico, i servizi segreti avevano identificato dei difetti di programmazione che gli permettevano di penetrare all’interno dei telefoni Android, degli iPhone e dei router di connessione, un’invasione che veniva giustificata con la necessità di spiare forze politiche straniere e i sospetti terroristi. Non solo, la CIA si sarebbe assicurata di sfruttare il consolato statunitense di Francoforte come copertura per una base hacker governativa e avrebbe collaborato con l’MI5 britannica per trasformare le Smart Tv in “cimici” capaci di carpire e trasmettere i suoi emessi in loro prossimità.
Che fosse mosso da nobili intenti o da una semplice ripicca personale, Schulte ha deciso nondimeno di condividere l’esistenza di queste strategie con WikiLeaks, portale che il 7 marzo 2017 ha pubblicato tutto. Si è trattato di una rivelazione epocale che non ha forse ottenuto la visibilità pubblica ricevuta precedentemente dai casi portati alla luce da omologhe “gole profonde” dell’era informatica, tuttavia la sua severità è stata tale da spingere la CIA a etichettare l’episodio come una “Pearl Harbor digitale”. Si è trattato, sostiene con altri termini l’accusa, della “più grave violazione di dati” della storia statunitense, una posizione enfatica che va però tacitamente ad autenticare la validità dei contenuti finiti online.
Nel 2018, l’ex dipendente della CIA è stato prelevato e portato in prigione in attesa di giudizio. Non gli è stata concessa alcuna possibilità di cauzione e, anzi, nel frattempo gli sono stati attribuiti ulteriori capi d’accusa, tra cui l’aver mentito all’FBI durante le indagini e il possesso di materiale pedopornografico, il quale sarebbe stato custodito all’interno di un archivio criptato che le autorità hanno rinvenuto nel suo appartamento newyorkese. Sebbene la pena sia stata assegnata solamente negli ultimi giorni, il whistleblower era già stato riconosciuto colpevole nel luglio del 2022 ed era semplicemente in attesa di scoprire quanto il giudice Jesse Furman si sarebbe dimostrato severo nei suoi confronti. Per inciso, l’accusa aveva chiesto l’ergastolo.
Sebbene gli potesse andare peggio, Joshua Schulte è stato comunque sottoposto a un’esplicita berlina istituzionale da parte della classe politica, la quale non ha evidentemente gradito la sua iniziativa di denunciare al mondo le strategie di sorveglianza a stelle e strisce. “Joshua Schulte ha tradito il suo Paese commettendo uno degli atti di spionaggio più gravi nella storia degli Stati Uniti”, ha sostenuto attraverso un comunicato il procuratore federale di New York Damian Williams, un sentimento che riecheggia anche le opinioni del vice segretario alla giustizia per la sicurezza nazionale, Matthew Olsen, il quale ritiene che l’informatico abbia messo a repentaglio la sicurezza nazionale.
[di Walter Ferri]
Fonte: lindipendente.online