Fine spiegato semplice.
Nel corso degli ultimi anni, anche grazie al successo di determinate operazioni di guerra psicologica, in numerosi ambienti della “controinformazione” si è largamente diffusa una stucchevole agitazione propagandistica che vedrebbe l’ex Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump come una figura politica “antisistema” e “pacifista” all’interno del panorama politico degli USA, che non ha mai scatenato nuove guerre, impegnata in un eterno conflitto con il “Deep State”, rappresentato da Soros, Biden, Clinton, Kamala Harris e più in generale dall’ala “liberal” dell’establishment statunitense.
I recenti attentati falliti contro l’ex Presidente da parte di estremisti filo-Kiev hanno contribuito ad alimentare tale mito. Il tycoon è visto come l’unica figura in grado di porre fine all’escalation della guerra per procura della NATO in Ucraina contro la Federazione Russa e di garantire la pace.
Ma è realmente così?
Per capirlo, bisognerebbe analizzare quella che è stata la prima parusia messianica di Trump.
Se l’amministrazione Trump ha avuto un merito, è stato quello di mostrare al mondo intero il volto reale, nudo e crudo, della “democratica e libera” America. Basti pensare a come l’ex presidente non abbia esitato a definire l’Europa come un “nemico” (https://www.bbc.com/news/world-us-canada-44837311), mettendo bene in evidenza lo status di subordinazione neocoloniale del continente europeo nei confronti del proprio padrone d’oltreoceano ed il fatto che qualsiasi forma di “integrazione” europea sia percepita dagli Stati Uniti come una minaccia qualora non strettamente controllata da Washington. A tal proposito, coloro che, ignoranti di tale realtà geopolitica, esprimono il desiderio che Donald Trump sia eletto nuovamente come Presidente affinchè possa “liberare” l’Europa e l’Italia, oltre ad addentrarsi nella fantageopolitica, mettono altresì in evidenza l’autocolonialismo degli europei e il loro atteggiamento di sottomissione “psicologica” agli occupanti statunitensi. Non a caso, il Presidente della Repubblica Araba di Siria Bashar al-Assad descrisse il miliardario newyorkese come “il più trasparente tra i presidenti degli Stati Uniti” (https://www.politico.com/news/2019/11/01/syria-assad-trump-best-president-063765), dopo che quest’ultimo ammise apertamente che l’occupazione militare statunitense dei territori nord-orientali della Siria, con l’ausilio delle milizie separatiste curde addestrate dal Pentagono, fosse diretta ad assicurare il controllo delle risorse petrolifere del Paese arabo (poi vendute illegalmente all’entità sionista tramite il magnate israeliano Mordechai Kahana, in ottimi rapporti con John McCain) e ad impedirne così la ricostruzione post-bellica. Nello stesso senso si mossero le dichiarazioni della Guida della Rivoluzione Islamica, l’Imam Khamenei: “Noi apprezziamo Trump, perchè ha fatto il lavoro per noi rivelando la vera faccia dell’America” (https://english.khamenei.ir/news/4617/We-thank-Trump-for-exposing-the-reality-of-the-U-S-Ayatollah).
Se si analizza l’operato dell’amministrazione Trump, si può notare tranquillamente come quest’ultima si sia mossa in sostanziale continuità con la precedente amministrazione Obama; lo stesso discorso vale per l’attuale amministrazione Biden con la precedente amministrazione Trump, come spiegherò successivamente.
Obama, con la sua strategia del “leading from behind”, in un momento di iniziale e progressivo esautoramento dell’egemonia unipolare statunitense a livello mondiale, era giunto alla conclusione che il mero impiego della forza militare diretta non era più nè sufficiente nè adeguato a garantire l’egemonia USA: tant’è vero che la strategia obamiana si concentrò fortemente sull’utilizzo di alleati regionali, coinvolgendoli in guerre per procura, forze mercenarie e formazioni terroristiche eterodirette dai servizi segreti nordamericani e, spesso, israeliani e sauditi al fine di generare la destabilizzazione di diverse aree del mondo, come accaduto in Siria, Libia, Yemen ed Ucraina.
Ad un occhio attento non sfugge come l’amministrazione Trump abbia portato avanti la medesima strategia: con il celebre discorso del Cairo, Obama inaugurò una nuova fase della strategia nordamericana per il Medio Oriente; questa strategia consisteva nel consolidamento dell’egemonia atlantica sul mondo arabo, coinvolgendo i regimi del Golfo in un ampio fronte anti-iraniano e nella collaborazione con il regime sionista a tal fine. La politica mediorientale di Trump è stata incentrata proprio su tale prospettiva, attraverso gli Accordi di Abramo, volti a garantire la saldatura di un’alleanza sotto il profilo economico, militare e di intelligence tra il regime sionista e le monarchie arabe in chiave anti-iraniana, e gli accordi-truffa del secolo, con la supervisione del genero ebreo sionista Jared Kushner (amico di famiglia del genocida Netanyahu), che hanno riconosciuto le colonie sioniste in Cisgiordania, dopo aver già riconosciuto la sovranità sionista su Gerusalemme trasferendovi l’ambasciata USA (con tanto di Mike Pompeo che approvava i piani sionisti di distruzione della Moschea di al-Aqsa e ricostruzione del Terzo Tempio, una delle ragioni che hanno portato all’Operazione Tempesta di al-Aqsa) e sulle alture del Golan siriano, e prevedevano la formazione di una pseudo-entità statale palestinese priva di qualsiasi sovranità ed a macchia di leopardo, condannando il popolo palestinese all’insignificanza, altra ragione fondamentale che ha spinto Hamas ad agire il 7 ottobre per riportare la causa palestinese al centro del dibattito internazionale.
Rimanendo nello scacchiere mediorientale, la presidenza di Trump ha visto l’intensificazione del sostegno logistico-militare alla criminale aggressione saudita contro lo Yemen, l’imposizione del Caesar Act alla Siria (oltre che il bombardamento di Douma e l’occupazione del territorio nord-orientale della Repubblica Araba), che tutt’ora strangola un popolo già devastato da 13 anni di aggressione condannandolo alla miseria (https://www.marx21.it/internazionale/risultati-preliminari-della-visita-nella-repubblica-araba-siriana-del-relatore-speciale-sullimpatto-negativo-delle-misure-coercitive-unilaterali-sul-godimento-dei-diritti-umani-della-dr-alena-douh/), la cancellazione unilaterale dell’accordo nucleare con l’Iran (con il plauso israeliano e saudita), i cui termini, ad onor del vero, non furono minimamente rispettati da Obama ed erano volti unicamente a temporeggiare, la strategia della “massima pressione” e quindi l’imposizione di un regime sanzionatorio criminale a Teheran, che, oltre a colpire gravemente il popolo iraniano, ha anche provocato enormi perdite economiche all’Europa, tant’è che la sola Italia ha perso quasi 30 miliardi in commesse commerciali, e soprattutto l’assassinio del generale Qassem Soleimani, in missione diplomatica a Baghdad per ristabilire i contatti tra l’Iran e l’Arabia Saudita; un vero e proprio atto di terrorismo internazionale che ha violato ogni trattato e che ha fatto comprendere agli attori principali del multipolarismo l’impossibilità di dialogare con gli USA per lo sviluppo di un nuovo ordine multipolare, dando inizio all’attuale “guerra mondiale a pezzi” (per usare le parole di Papa Francesco).
Centrale nella geopolitica trumpiana è stata la dottrina obamiana del “Pivot to Asia”, inaugurata nel 2008, e decisamente rafforzata attraverso l’aumento esponenziale della vendita di armi al regime fantoccio di Taiwan e delle operazioni militari USA nel Mar Cinese Meridionale, lo scatenamento di una vera e propria guerra commerciale e doganale contro Pechino (ora continuata da Biden, senza successi) e la destabilizzazione di Hong Kong e delle principali arterie della Via della Seta, come l’Asia Centrale, la Thailandia, il Libano e la Bielorussia; a questo si collegano anche le reiterate pressioni nei confronti di Pechino sulla questione dello Xinjiang (ma anche i già citati Accordi di Abramo), fondamentale per la Via della Seta, culminate con la rimozione del Movimento Islamico del Turkestan Orientale dalla lista dei gruppi terroristici stipulata dal governo statunitense e portate avanti anche attraverso l’intensificazione della propaganda relativa al presunto “genocidio degli uiguri” da parte di numerosi personaggi e media legati al trumpismo, come l’Epoch Times. Di recente la Reuters ha rivelato come Trump abbia autorizzato la CIA e il Pentagono a lanciare campagne di disinformazione contro il governo di Pechino (https://www.reuters.com/investigates/special-report/usa-covid-propaganda/, https://www.reuters.com/world/us/trump-launched-cia-covert-influence-operation-against-china-2024-03-14/). Inoltre, gli USA hanno puntato soprattutto sull’India di Modi nel tentativo (portato avanti anche da Biden ma di fatto rimasto sulla carta) di spostare la propria produzione manifatturiera dalla Cina a Nuova Delhi, per farne un rivale strategico di Pechino nel continente asiatico, sotto l’egida nordamericana.
Ma narrazione fantasiosa più amata sia dai media liberal sia dalla “controinformazione” filo-trumpiana è quella che ritrae il tycoon statunitense come un fervido amico della Russia di Vladimir Putin (ricordare la bufala del “Russiagate”), secondo gli “antisistema” in nome di un sedicente conservatorismo cristiano contro le “èlite globaliste” (descritte dai trumpisti come alleate della Cina comunista). Peccato che tra le grandi imprese della prima parusia di Zion Don si annoveri la messa in moto dell’Iniziativa Tre Mari (storicamente di matrice nazionalista polacca), altra eredità dell’obamismo volta a costruire un cordone sanitario ai confini occidentali della Russia, andata di pari passo con l’ampliamento della NATO, l’uscita unilaterale dall’Intermediate Range Nuclear Forces Treaty, e a tal proposito occorre ricordare che l’eventualità che gli USA potessero piazzare missili a medio raggio in Ucraina a quattro minuti di volo da Mosca è una delle ragioni fondamentali che hanno spinto Putin all’avvio dell’Operazione Militare Speciale del 24 febbraio, gli sforzi per sabotare la realizzazione del gasdotto Nord Stream-2, intensificando le pressioni diplomatiche sul governo di Berlino, predisponendo una serie di sanzioni contro tutte le imprese coinvolte nella costruzione del gasdotto, con il plauso dei governi russofobi dell’Europa orientale, e inviando la prima fornitura di GNL americano verso la Polonia, e l’invio di 250 milioni di dollari in aiuti militari al regime golpista neonazista di Kiev, nel momento di maggiore recrudescenza dell’aggressioni contro le Repubbliche del Donbass: nel 2017 gli USA vendettero per la prima volta armi letali a Kiev. L’amministrazione Trump ha intensificato le tensioni con Mosca più di ogni altra amministrazione precedente dalla caduta del Muro di Berlino: ai fatti già elencati vanno aggiunti gli attacchi a partner russi come Siria e Venezuela, l’attuazione della revisione della postura nucleare, costringere RT e Sputnik a registrarsi come agenti stranieri, le infiltrazioni della rete elettrica russa, l’espulsione di decine di diplomatici e la nomina del falco antirusso Kurt Volker a rappresentante speciale in Ucraina.
Per concludere, altri “successi” dell’amministrazione Trump includono l’embargo contro il Venezuela bolivariano e il fallito tentativo golpista dell’Operazione Gedeone, volto a detronizzare Maduro in favore del burattino Guaidò, il primato di ordigni sganciati sull’Afghanistan e di civili uccisi e l’espansione del budget militare USA: a tal proposito, occorre ricordare come nel 2016 Trump promise di sciogliere la NATO, ma invece, una volta insediatosi, impose a tutti i suoi membri di destinarle il 2% del PIL ogni anno.
Insomma, è abbastanza chiaro come Trump non sia nè un amico della Russia, nè un pacifista nè fondamentalmente diverso dagli altri presidenti nordamericani. Geopoliticamente parlando, il trumpismo si è mosso in assoluta continuità con le amministrazioni precedenti, applicando la consueta strategia USA: esacerbare le tensioni internazionali per garantire profitti al complesso militare-industriale nordamericano, far fluire i capitali finanziari internazionali negli Stati Uniti e costruire blocchi di contrapposizione tra l’Europa ed il resto dell’Eurasia.
Il centro imperiale USA è caratterizzato dalla presenza di un complesso militare-industriale che persegue delle precise finalità geopolitiche e si muove in una data direzione a prescindere dalla figura del Presidente, a cui si tende ad attribuire eccessivo potere. Quello che viene presentato come scontro tra Trump e il Deep State è in realtà uno scontro interno tra diverse strategie e fazioni, esistente negli USA da ben prima di Trump. Il truffatore Steve Bannon, principale ideologo del trumpismo, attivamente impegnato durante l’amministrazione nel tentativo di unire sotto la bandiera di un rinnovato americanismo i partiti politici di destra che si opponevano (retoricamente) alle istituzioni europee (https://www.eurasia-rivista.com/sovranismo-e-civilta-giudeo-cristiana/, https://www.ereticamente.net/affinita-e-divergenze-presunte-tra-globalisti-e-sovranisti-daniele-perra/), riuscì a far nominare diversi “uomini di fiducia” all’interno dei gangli precedente amministrazione, come Randall G. Schriver, ex assistente del Segretario alla Difesa per la sicurezza nella regione dell’Indo-Pacifico: fondatore del “Think Tank” Project 2049, con il quale, sin dal 2008, ha continuamente sfornato lunghi rapporti sulla sedicente “minaccia cinese” nei quali si suggeriva di incrementare la vendita di armamenti USA a Taiwan, Giappone, Corea del Sud, Filippine, Indonesia e Australia, proprio in chiave anticinese. Tra i finanziatori di Project 2049 risulta anche la Open Society di George Soros, oltre che, naturalmente, le grandi industrie degli armamenti (come Lockheed Martin).
I falchi neocon come Bolton, Graham e Pompeo sono stati messi alla Casa Bianca dallo stesso Trump. Il magnate ebreo sionista Sheldon Adelson, terzo uomo più ricco degli USA e ardente sostenitore del trasferimento della capitale israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme, fu il principale donatore alla campagna elettorale di Trump nel 2016 e nel 2020. Proprio di recente la sua vedova Miriam Adelson, israeliana più ricca al mondo, ottava donna più ricca al mondo ed ardente sostenitrice dell’annessione della Cisgiordania allo Stato di Israele, si è detta pronta a finanziare la campagna elettorale di Trump di quest’anno con una donazione di 100 milioni di dollari. Non stupisce che Trump sia un fervente sionista e che stia incentrando gran parte della propria campagna elettorale sul sostegno al regime genocida di Netanyahu. Negli ultimi mesi Trump ha anche cominciato ad incassare il sostegno di alcuni pezzi grossi del capitalismo tecno-finanziario nordamericano, come Stephen A. Schwarzman, fondatore e CEO di Blackstone, Elon Musk e Peter Thiel, miliardario autodefinitosi “anarco-capitalista”, co-fondatore di PayPal e fondatore di Palantir Technologies, azienda che di recente ha fornito la propria tecnologia IA “Lavender” all’esercito israeliano per effettuare i bombardamenti terroristici su Gaza che sterminano migliaia di civili ogni giorno. Si è arrivati, per dichiarazione stessa di Trump, persino all’ipotesi della nomina a Segretario al Tesoro di Jamie Dimon, CEO di JP Morgan, la più grande banca privata del mondo.
Questo sarebbe lo scontro con il Deep State?
Di fatto, propaganda elettorale a parte, l’amministrazione Trump è stata propedeutica alla preparazione della strategia geopolitica della successiva amministrazione Biden (Iniziativa Tre Mari, ritiro unilaterale dall’INF, Accordi di Abramo), così come Biden sta spianando la strada per l’operato della futura amministrazione, che al 90% sarà nuovamente presieduta da Trump. Obiettivo del primo trumpismo era la reindustrializzazione degli USA e scaricare in misura maggiore il peso della NATO sui subalterni europei. Biden, con lo scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina, ha “dato il via” alla reindustrializzazione USA (che però rimane ancora sulla carta ed infattibile) attraverso la distruzione del tessuto industriale europeo, rendendo l’Europa e nella fattispecie la Germania del tutto subordinata a Washington e favorendo una fuga di capitali dal continente.
La politica europea di Trump e Biden è stata identica nelle misure protezioniste e nell’attacco all’industria europea. I Democratici non dicono “America First”: fanno direttamente saltare in aria i gasdotti dei competitor, scatenano un conflitto nel cuore dell’Europa e costringono le industrie europee ad investire negli USA.
Attualmente, la nomina di J.D. Vance come vicepresidente mette già in luce la traiettoria geopolitica della prossima amministrazione Trump, qualora il tycoon dovesse vincere le elezioni. Vance, lautamente finanziato dal già citato miliardario Peter Thiel, sostiene che gli USA debbano smarcarsi dal teatro ucraino, delegando il conflitto all’Europa, per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran in collaborazione con le monarchie del Golfo, e aggiungo che non a caso Trump ha già parlato di “accerchiamento dell’Iran”, e impegnarsi per un conflitto prossimo con la Cina, prima che le sue capacità militari siano accresciute. Naturalmente, la vendita di armi a Taiwan e le provocazioni USA nel Pacifico aumenteranno esponenzialmente.
Insomma, è ancora più chiaro come il trumpismo non possa minimamente essere considerato un alleato del multipolarismo, e lo sarà ancor meno durante un eventuale secondo mandato di Trump.
Il trumpismo e le sue varie diramazioni, da QAnon alla destra europea, andrebbero lette come un tentativo di egemonizzare il (sacrosanto) malcontento sociale generato dalle politiche neoliberiste a precisi fini geopolitici: nel centro imperiale USA, serve a creare una base ideologica di consenso, mentre nelle province imperiali a garantirne la totale sottomissione a Washington. Non a caso la prima amministrazione Trump ha saputo fare uso delle tendenze cospirazioniste per costruirsi un proprio consenso transnazionale. Nulla vieta che nei prossimi anni le élite occidentali, da sempre abili nella manipolazione del dissenso, in tal caso esercitata da una fazione dello stesso sistema imperialista, possano individuare nel trumpismo un fenomeno politico capace di ricompattare l’Occidente e convincere i popoli europei, illusi dalla visione di Trump come “salvatore”, ad andare a morire per salvare la “civiltà occidentale” assediata dai malefici “tiranni” Xi, Putin e Khamenei.
Per il momento, si può solo sperare che una nuova amministrazione Trump continui ad accrescere i livelli di polarizzazione politica in Occidente e a mettere in crisi la classe dirigente degli USA, come ha già fatto la prima volta.
Il declino dell’egemone procede a passo spedito e così la nascita del nuovo ordine multipolare.
Fonte: lantidiplomatico.it