Fine spiegato semplice.
Di Konrad Nobile per Comedonchisciotte.org
TRIESTE –
A tre anni esatti dai fatti del porto di Trieste e dal vile sgombero del Varco IV, apice della protesta contro la tessera verde e punto di svolta per tutto il movimento “No Green Pass”, torna utile analizzare ciò che allora accadde.
Fare un’autopsia di quelle dense giornate d’ottobre e proporre delle riflessioni in merito è essenziale non solo per preservarne la memoria, ma anche per comprendere ciò che allora non funzionò e che portò al declino di un intero movimento, avviatosi verso la sua parabola discendente proprio dopo quel fatidico 18 ottobre 2021.
Lo scopo ultimo di questa riflessione è infatti tentare, scovando le mancanze e i limiti che si ebbero allora, di fare tesoro di quella grande esperienza affinché, nelle mobilitazioni presenti e future, non si ricada negli stessi errori e si possa invece intraprendere la strada della lotta in maniera più matura, organizzata ed efficace.
Per svolgere al meglio questa nostra disamina ci siamo affidati, oltre alle nostre conoscenze, memorie ed esperienze dirette, anche a preziose testimonianze di alcuni triestini, membri del locale “Coordinamento No Green Pass e Oltre”, che hanno voluto con entusiasmo raccontarci la loro versione dei fatti e narrarci quelle giornate.
Su quello che accadde e sui giudizi relativi a come fu gestita la piazza in quei giorni non vi è accordo all’interno del Coordinamento, e dunque le dichiarazioni qui pubblicate (che sono solo una parte di quelle a noi rilasciate) vanno intese come contributi dei singoli intervistati e non come un giudizio unanime del comitato triestino sui fatti del porto.
Prima di iniziare con la nostra analisi, però, crediamo sia giusto ricordare come proprio in questi giorni sia iniziato a Trieste il processo contro alcuni manifestanti presenti al porto il 18 ottobre 2021 (come anche testimoniato dall’articolo di CDC “16 No Green Pass sotto processo per i fatti del Porto di Trieste, ma verrà il giorno dei veri criminali”). Essi vengono ora vergognosamente trascinati in tribunale dagli organi repressivi dello Stato, dopo essersi beccati gli idranti, le manganellate e pure i gas lacrimogeni che i gendarmi non hanno lesinato sui cittadini presenti al Varco IV.
A questo giro, sono in sedici le persone ad essere direttamente messe nel mirino della repressione, in un attacco che però vuole colpire, in realtà, tutto un movimento che in quei giorni d’ottobre impensierì non poco l’allora governo Draghi. Un segno positivo di solidarietà e speranza lo dà però il Coordinamento No Green Pass e Oltre di Trieste, assieme ad altri movimenti e realtà locali, che non manca di organizzare presidi, raccolte fondi e di continuare con la resistenza anche in questo drammatico periodo.
Qui riportiamo il filmato di un bel intervento pronunciato da un attivista del Coordinamento proprio in occasione dell’inizio dell’ultimo processo.
Ora più che mai, è bene realizzare come questi processi – di natura intimamente politica – siano moniti rivolti contro tutte le anime dissidenti (“Colpisci uno per educarne cento”) e che dunque la risposta auspicabile dovrebbe essere collettiva, senza lasciare soli i colpiti, in una difesa che trascenda gli aspetti legali per avere una sua impostazione pure sul piano politico.
Ma ora, terminata questa premessa introduttiva, passiamo all’analisi vera e propria.
—
Innanzitutto, prima di trattare direttamente dei fatti del porto, è bene tentare di comprendere cosa portò la città giuliana, ed il suo scalo marittimo, ad essere il fulcro della mobilitazione No Pass.
Trieste simbolo (inter)nazionale della lotta
Il primo fattore decisivo fu che Trieste, per diverse ragioni (tra le quali devono avere un certo peso la peculiare storia, posizione geografica e composizione sociale del relativo territorio), è stata la città che – in proporzione alle sue dimensioni – ha avuto la più grande partecipazione popolare ai cortei e alle manifestazioni contro le discriminazioni introdotte dal governo Draghi.
Ai primi presidi e alle prime manifestazioni cittadine (tutte statiche, ovvero prive di corteo) contro il Green Pass si aveva una partecipazione molto variabile, che poteva andare da qualche centinaio di persone, nei casi peggiori, a qualche migliaio di manifestanti, questo è già da considerarsi un numero considerevole in una città che conta poco meno di 200.000 abitanti.
In questa prima fase, non esisteva ancora alcun tipo di coordinamento cittadino e ad organizzare gli eventi di protesta a Trieste erano l’associazione Alister (“Associazione Libertà di Scelta Terapie Mediche”, esistente dal lontano 1988) con, successivamente, il Movimento 3V.
Queste le parole di Marco Bertali, membro di Alister e, successivamente, anche del Coordinamento No Green Pass: “parlando di movimento del dissenso a Trieste, i primi a muoversi siamo stati noi come Alister e, poi, come Movimento 3V. La piazza è stata tenuta per mesi grazie all’associazione Alister, con manifestazioni e con incontri di fronte alla sede locale della RAI, alla quale si è poi aggiunto il Movimento 3V”.
Manifestazione organizzata da Alister e 3V a Trieste all’indomani di un famoso discorso di Draghi, 23 luglio 2021
Un salto di qualità si ebbe però a settembre con la costituzione del “Coordinamento No Green Pass” che, a partire dalla seconda metà di settembre, iniziò ad organizzare cortei animati da circa 10.000 persone, per poi arrivare, nei primi di ottobre, al picco di circa 30.000 cittadini.
Sempre Marco ricorda: “Ad una manifestazione del Movimento 3V in Piazza della Borsa (primi di settembre 2021) hanno fatto allora un loro primo volantinaggio gli amici che si stavano riunendo in questo gruppo informale, poi chiamato Coordinamento No Green Pass di Trieste, lanciando un’iniziativa prima assembleare e poi un corteo. Loro hanno fatto un passo in più rispetto alle nostre (di Alister e 3V) iniziative. A noi era stato detto, dalla Questura, che non era possibile fare manifestazioni in movimento, invece le persone che furono il nucleo di quello che poi diverrà il Coordinamento si spulciarono le varie normative e scoprirono che non vi era alcuna interdizione di questo tipo. Le prime grosse manifestazioni in movimento sono partite dunque sotto la “cornice” del Coordinamento No Green Pass di Trieste, in cui confluirono sia Alister sia 3V”.
Corteo organizzato dal Coordinamento No Green Pass di Trieste e partecipato da migliaia di persone, settembre 2021 (fonte immagine: Il Piccolo)
Questo nuovo attore, ossia il Coordinamento No Green Pass di Trieste (che continua ad esistere tuttora col nome di “Coordinamento No Green Pass e Oltre”, sebbene molte cose siano cambiate e molte persone ne siano uscite), fu un comitato aperto ed eterogeneo dove si iniziarono a riunire diverse anime e persone, anche con passati molto diversi, se non addirittura antitetici. Qui è giusto, però, riconoscere che importante fu il contributo iniziale dato allora da alcuni militanti di ispirazione libertaria, anarchica e comunista (che a Trieste furono in prima fila nella mobilitazione), senza il quale, forse, non sarebbe mai nato il Coordinamento.
“Parola d’ordine del Coordinamento era evitare la distinzione tra vaccinati e non vaccinati, tutti insieme contro Green Pass e discriminazioni”, sottolinea Marco.
I grandi numeri raggiunti nei primi cortei, molto probabilmente, furono decisivi nel determinare l’altro fattore che ha reso Trieste la città cruciale della protesta No Green Pass: il coinvolgimento e la scesa in campo dei portuali.
E’ infatti verosimile pensare che, senza una tale quantità di cittadinanza scesa per le strade, i lavoratori del porto non avrebbero intrapreso la strada della mobilitazione collettiva. Tuttavia, il particolare fermento popolare, che strideva con la decisa fermezza “filogovernativa” dei rappresentanti delle istituzioni locali (1) e della grande borghesia triestina, evidentemente contagiò anche i lavoratori dello scalo alto-adriatico, molti dei quali erano privi di tessera verde e restii a farsi inoculare il c.d. vaccino.
Inoltre, bisogna tener presente che il Coordinamento No Green Pass si mosse fin da subito nel tentativo di aprire un dialogo con varie categorie di lavoratori per tentare, giustamente, di coinvolgerle nella lotta e di far fare un ulteriore salto di qualità al movimento, nella speranza di riuscire ad incidere concretamente e a controbilanciare un rapporto di forza che, ieri come oggi, pende tutto a favore dello Stato e dei grandi potentati economici.
Ecco cosa ci dice a riguardo Marco Bertali, testimone di tutti gli sviluppi: “Si tentò di andare a trovare dei contatti con le realtà lavorative. Questi erano i primi passi, le riunioni (del Coordinamento No Green Pass) a quel tempo si facevano a San Giusto (un quartiere storico di Trieste, ndr) e vi partecipavano qualcosa come 70/80 persone a volta. Ad un certo punto comparì anche Stefano Puzzer, il presidente del CLPT, ovvero la sigla sindacale allora più grossa ed importante nel porto di Trieste. Ad una riunione i rappresentanti del CLPT, oltre ad esprimere consenso al tentativo fatto dal Coordinamento di dialogare con altre categorie di lavoratori (all’epoca erano venuti fuori gli autotrasportatori e qualcos’altro che ora non ricordo), ci dissero che avevano pensato di bloccare il porto. Alla riunione successiva decidemmo di fare e sostenere questa cosa. Per quanto riguarda la data fu stabilito di agganciarsi allo sciopero lanciato dalla FISI (contemporaneo all’entrata in vigore del Green Pass per accedere ai luoghi di lavoro) per avere una copertura legale e sindacale.”
La presa di posizione del CLPT (2), che promise una determinata azione di blocco portuale a seguito della notizia dell’introduzione del pass per poter lavorare, e le dichiarazioni dei lavoratori, che promisero di resistere fino a quando il Green Pass non sarebbe stato completamente ritirato, diedero ulteriore linfa all’entusiasmo in città e ben presto la notizia fece il giro d’Italia, infondendo fiducia e speranza a tutto il “popolo No Pass”.
Due comunicati del CLPT, emessi rispettivamente il 28 settembre e il 12 ottobre
I portuali si unirono in gran numero ai cortei cittadini indetti dal Coordinamento No Pass, e la loro “muscolosa” presenza si fece fin da subito notare in manifestazioni che apparvero più grintose e forti, mettendoli così al centro dell’attenzione pubblica. I colossi in Gilet giallo-arancione trasmisero sicurezza e ben presto agli occhi di molti diventarono “eroi”, i valorosi paladini della causa.
Tutti cominciarono a guardare loro come l’esempio, il primo e, purtroppo, di fatto unico caso di porzione di classe lavoratrice scesa apertamente, collettivamente ed ufficialmente (e, apparentemente, in maniera organizzata) in campo nella lotta contro l’apartheid vaccinale.
Nel subconscio si ebbe percezione che per la prima volta dall’inizio delle proteste, grazie a loro, forse qualcosa poteva cambiare. Forse un tale pensiero passò anche nella mente di chi, seduto in alto e in qualche palazzo romano, stava dalla parte opposta della barricata.
Tornano alla mente le righe che Orwell mise in bocca (o meglio, nei pensieri) al suo Winston, protagonista del celebre romanzo 1984: “(…) Seppure c’era una sola speranza, doveva trovarsi fra i prolet, perché solo fra essi, in quelle masse disprezzate, stipate in alveari, (…) poteva generarsi la forza capace di distruggere il Partito.”
Tuttavia, nell’inconsapevolezza generale, proprio in quel momento cominciarono a maturare le crepe che porteranno a quella che, secondo l’autore di questo articolo, sarà una cocente sconfitta del movimento No Green Pass.
Marco Bertali così ci fa intendere come, probabilmente in maniera spontanea e involontaria, si iniziarono a manifestare pericolosi segni di spaccatura interna al movimento triestino: “In una manifestazione precedente all’inizio del presidio in porto, i portuali di fatto spezzarono il corteo. Essi si presero la parte centrale, rallentando il passo rispetto alla testa del corteo (sempre organizzato dal Coordinamento No Green Pass) di fatto spezzandolo. I portuali si inserirono così all’interno del Coordinamento, prendendosi la scena e di fatto oscurando il resto. Le varie persone e realtà che costituivano questa organizzazione cittadina erano unite però da un patto che stabiliva che tutte le manifestazioni fossero unite e compatte e che dovessero apparire come tali (fondamentale era, allora, dare il senso di unità). Con l’inizio del presidio al porto le cose cambiarono però completamente, e le cose andarono verso tutt’altra direzione… ”
Nel mentre arrivò il 15 ottobre, il Green Pass iniziò ad essere richiesto per lavorare e, contemporaneamente, iniziò il presidio davanti al principale varco del porto, presidio che non fu MAI un blocco, contrariamente a quanto precedentemente annunciato dal CLPT.
“Noi (Coordinamento No Green Pass, ndr) avevamo inteso che il porto era stato bloccato, e invece l’accesso a chi voleva andare a lavorare venne garantito”, dice Marco Bertali.
La vicenda, comunque eccezionale e a suo modo spettacolare, attrasse a quel punto addirittura un’attenzione internazionale.
Ora, tracciati gli antefatti ed i retroscena che portarono al presidio davanti al Varco IV, proviamo ad esporre quelle che, almeno secondo l’autore di questo articolo, sono le motivazioni della sconfitta della mobilitazione di Trieste (che fu una sconfitta di tutto il movimento No Green Pass), ripercorrendo i principali fatti accaduti dopo il 15 ottobre.
LE CAUSE DELLA SCONFITTA
Mancata solidarietà e mancata scesa in campo di altre parti di classe lavoratrice.
Sebbene qualcosa si mosse anche altrove, bisogna però prendere atto che, con l’eccezione dei portuali di Genova, i portuali triestini vennero sostanzialmente lasciati soli. Oltre ai sodali liguri, infatti, in nessun altro porto i lavoratori si mobilitarono in misura significativa e diedero la loro solidarietà. Ciò nemmeno, cosa assai grave, dopo le incresciose scene del 18 ottobre.
La speranza del movimento No Pass era quella di vedere, in quel fatidico 15 ottobre, l’Italia paralizzata da un’azione collettiva e generalizzata. Nei giorni precedenti si fantasticava immaginando autostrade bloccate, camionisti ancorati nei parcheggi, operai in sciopero e, naturalmente, porti fermi (nonché poliziotti e militari “fuori servizio”).
Ebbene la realtà fu amaramente diversa: il 15, giornata nella quale la FISI aveva proclamato uno sciopero (spacciato come generale), ci furono sì partecipate manifestazioni, ma nessuna categoria o parti organizzate di classe lavoratrice si mobilitarono in maniera collettiva, compatta, diffusa e strutturata.
Dal sabato 16 ottobre fu definitivamente chiaro che nelle fabbriche si continuava a lavorare, che nei porti (al di là di Trieste e, forse, in parte Genova) le navi scaricavano e caricavano normalmente le merci, che negli uffici gli impiegati continuavano regolarmente a rispondere al telefono e fare i loro conti, che nelle autostrade i camionisti continuavano a fare normalmente il loro mestiere e così via. L’unica anomalia si registrò nelle farmacie, intasate e prese d’assalto da file di lavoratori pronti a porgere il naso per il tampone.
Nello stesso porto di Trieste, benché la stragrande maggioranza dei lavoratori non si fosse recata al lavoro, non ci fu, come già scritto, nessun blocco totale.
In merito, un altro membro del Coordinamento da noi intervistato e che preferisce mantenere l’anonimato, ci tiene a ricordare che il presidio al porto fu sempre rigorosamente pacifico e che non assunse mai i connotati di un blocco:
“Il presidio fu pacifico e, contrariamente da quanto detto da alcuni, nulla venne bloccato dai manifestanti. Chi voleva entrare in porto poteva farlo, tant’è che si videro entrare macchine e camion. Questo è bene ricordarlo.”
Si ebbe così conferma che il movimento No Green Pass continuava ad avere un grande e determinante assente: la classe operaia, qui intesa come blocco cosciente, organizzato e autodeterminato.
A maggior ragione, tutti gli italiani sofferenti rispetto alle politiche del governo Draghi riposero le loro speranze nel molo VII di Trieste, ovvero nei confronti di quei portuali che erano un’eccezione, a quei lavoratori coraggiosi che decisero da soli di muoversi uniti (vaccinati e non vaccinati, tutti assieme per la causa) e che vennero lasciati praticamente isolati, dalla loro categoria (Genova esclusa) come dalle altre.
In porto, migliaia di persone e decine di associazioni e movimenti sostennero il presidio e diedero una grande solidarietà umana, che arrivò anche da lontano, ovvero da chi poteva essere a Trieste solo con il cuore. Ma ciò che mancò totalmente fu la solidarietà operaia, un tempo anima e forza dei portuali. Una mancanza già palesatasi tristemente in tutte le mense aziendali d’Italia.
Lavoratori privi di Green Pass esclusi dalla mensa e costretti a mangiare all’esterno, seduti a terra.
All’aumentare delle aspettative e delle speranze dell’intero movimento No Green Pass sul porto, unica ed eccezionale “fortezza operaia” in piedi contro le misure del governo, vi fu analogamente l’incremento della responsabilità e della pressione sui portuali giuliani, assolutamente impreparati a gestire una situazione simile.
Trieste aveva chiamato… in pochi (lavoratori) risposero.
Mancanza di organizzazione, personalizzazione, crepe interne e divisioni
“Con l’inizio del presidio al porto, per certi versi comprensibilmente, il tutto non ha più avuto il carattere di una manifestazione organizzata dal compatto Coordinamento No Green Pass di Trieste – che assieme ai portuali decise di procedere alla mobilitazione – ma è diventata di fatto, agli occhi dell’opinione pubblica, ma anche poi nelle decisioni concrete, la manifestazione dei soli portuali. Per noi, questa cosa sembrava comunque positiva perché, agendo in porto, finalmente si andavano a toccare interessi concreti e dunque la protesta stava assumendo maggiore forza ed efficacia.”
Così Marco Bertali ci spiega come, di fatto, l’evento partito a Trieste il 15 ottobre divenne un affare dei portuali, sul quale il più ampio Coordinamento No Green Pass cominciava ad avere sempre meno voce in capitolo.
Tuttavia fu ben presto evidente che, tra i portuali, non vi fosse poi tutta questa grande organizzazione. Essi si dimostrarono infatti impreparati a gestire ciò che avevano messo in moto e che presero nelle loro mani, ritrovandosi peraltro, come sostenuto nel paragrafo precedente, abbandonati dai colleghi di altri porti e dai lavoratori (intesi come categoria compatta) di altre realtà.
È lecito pensare che i portuali si siano “gettati nella mischia” senza piani concreti, un po’ in balia degli eventi, o comunque senza essere pronti a sopportare le enormi pressioni che ben presto arrivarono. Già il fatto iniziale di aver promesso un blocco totale ad oltranza e di avere poi, alla vigilia del 15 ottobre, ritrattato e organizzato un più “delicato” presidio doveva essere una spia d’allarme.
La grande pressione, anche mediatica, e probabilmente le prime “minacce” che iniziarono ad arrivare dalle autorità, nonché la notizia che i lavoratori dello scalo avrebbero avuto i tamponi gratuiti (cosa che per qualcuno evidentemente era già sufficiente), spaccarono quella compattezza e determinazione, forse più di facciata che altro, che i portuali avevano affermato di avere e che avevano cantato a gran voce (il loro “la gente come noi non molla mai” – slogan mutuato dalle curve degli stadi – fece il giro e divenne una sorta di inno No Pass).
Passata la grande giornata del 15, cominciò difatti ad emergere il sentore che in realtà c’era già chi voleva farla finita.
Nel mentre, accadde che la gran parte dell’attenzione e tanta, troppa, autorevolezza venne data ad un singolo. L’allora presidente del CLPT Stefano Puzzer divenne infatti il personaggio di punta, colui il quale tutti i giornalisti volevano intervistare e, agli occhi di molti, la guida legittima della protesta, a cui un intero movimento dava fiducia.
È chiaro che per un movimento dipendere o affidarsi ad una sola persona può essere molto pericoloso poiché, qualora essa ceda alle grandi pressioni (di varia natura) o venga meno, la cosa potrebbe minare l’intero movimento.
Nonostante questo, e nonostante in origine la realtà triestina ci avesse pensato, i fatti portarono Stefano Puzzer ad assurgere a indiscusso leader.
Ecco cosa ci dice Bertali:
“Ci si era inizialmente organizzati per gestire le varie comunicazioni, conferenze ecc. con delle rotazioni. Non c’era mai un solo portavoce, ben sapendo che iniziando a fare azioni forti tutte le attenzioni e le pressioni si sarebbero potute concentrare sui singoli, mettendoli in difficoltà e rischiando di far saltare l’intera mobilitazione. Si volevano evitare l’attenzione mediatica e quella della forza pubblica, cioè tutto quello che è l’impianto governativo con le sue conseguenti pressioni; e che ciò si concentrasse su un singolo o su poche persone.
Tuttavia la situazione sfuggì di mano e, ciò che era diventata la questione dei portuali, divenne poi la questione del deus ex machina Puzzer”.
Questi fattori portarono ad uscite e dichiarazioni strane e confuse, fatte il sabato 16 sera, in cui il noto portavoce dei portuali, divenuto idolo popolare, annunciava a sorpresa la smobilitazione del presidio dopo soli due giorni, tra lo stupore, lo sconforto e le lacrime dei molti che al motto “la gente come noi non molla mai” ci aveva creduto veramente.
Qui l’annuncio della sostanziale smobilitazione, fatto da Puzzer e dal CLPT, rilanciato dall’emittente locale TeleQuattro. A seguito della pressione del Coordinamento No Green Pass ci sarà il passo indietro e un nuovo annuncio di continuazione del presidio, che proseguirà fino allo sgombero del 18 ottobre.
“Noi, come Coordinamento No Green Pass, in quei giorni abbiamo continuato a fare assemblee. Puzzer partecipava a quelle riunioni, ma lui era diventato il centro di tutto, non solo dell’attenzione mediatica ma anche delle comunicazioni che venivano date. Ad un certo punto, il sabato sera del 16 ottobre, lui (autonomamente) aveva già diramato un comunicato nel quale annunciava la fine della mobilitazione. Dopo ritrattò, ma solo su pressione nostra (del Coordinamento), che non intendevamo smobilitare.”
Come testimonia Marco Bertali, vi fu un dietrofront che cassò l’annuncio della fine del presidio, che però arrivò solo grazie alle pressioni del coordinamento e alle richieste della gente che, magari con le lacrime agli occhi, non poteva accettare una resa così ingloriosa. E così il presidio proseguì anche il giorno successivo, fino al famigerato lunedì 18.
Da quel momento in poi, la sensazione che si respirò fu quella che a “difesa” del porto rimase solo una minoranza di portuali, appoggiata dai tanti cittadini presenti (molti arrivati anche da remote zone d’Italia).
Le giornate del presidio (strumentalizzate da numerosi politicanti che non mancarono di fare la loro visita), furono comunque indimenticabili. Il clima comunitario fu veramente unico. Vi era tanta speranza, tanta voglia di unirsi, di stare assieme e di far fronte comune, aiutandosi vicendevolmente. Molte persone portavano cibi e bevande, distribuiti gratuitamente, e fuori dai cancelli del porto c’era chi addirittura cucinava polenta per tutti,
Come ci racconta Luca, il nostro terzo testimone:
“Giorni bellissimi: si aveva la sensazione che eravamo in tanti a pensarla allo stesso modo e, soprattutto, che eravamo uniti. La gente continuava ad arrivare… la domenica tutto il piazzale antistante al Varco IV era gremito di gente. C’era gente di Trieste, c’era l’Italia: da Vicenza, da Brescia e così via. L’atmosfera era quasi di festa. Non c’era nessuna ostilità, e a maggior ragione l’attacco che subimmo lunedì 18 fu proditorio.”
Anche in questo clima, nonostante tutto, il Coordinamento continuò a ritrovarsi e a fare riunioni, come ci racconta Luca:
“Noi come Coordinamento No Green Pass continuammo comunque a fare le nostre riunioni al porto, questo anche la sera precedente lo sgombero, quando ormai si sapeva che qualcosa sarebbe successo.”
18 ottobre, la mancata “difesa” del porto e “l’incarcerazione” in Piazza Unità
In molti, a seguito dei fatti del porto di Trieste, persero fiducia e si fecero vincere dalla rassegnazione.
Divenne comune sentire frasi del tipo “le abbiamo provate tutte, abbiamo fatto grandi manifestazioni, abbiamo fatto il possibile e non è cambiato nulla… non c’è niente da fare”.
Tuttavia non si fece esattamente tutto il possibile, o comunque ciò che si fece poteva sicuramente essere fatto meglio.
In primis, va detto che il presidio al Varco IV non venne “difeso” attivamente, anche se la cosa, date le difficoltà e le carenze organizzative, nonché l’assenza di un tale livello di determinazione nella stragrande maggioranza delle persone (anche data l’ampia fiducia, riposta dalla maggioranza, negli approcci gandhiani alla protesta), non era probabilmente allora fattibile.
In ogni modo, l’arrivo delle forze di polizia, avvenuto nella mattinata del 18, non fu proprio una sorpresa. Già dalla sera precedente girava infatti voce di un imminente sgombero.
Ci dice Marco Bertali: “Il 17 sera cominciavano ad arrivare messaggi sul fatto che la cosa cominciava ad essere indigesta alle autorità e che a breve ci sarebbe stato un intervento poliziesco. Quindi, facemmo un’assemblea serale e si stabilì che, nel caso di uno sgombero, ci saremmo spostati verso un altro varco del porto, visto che altrimenti non avremmo potuto resistervi.
A un certo punto, sul finire della riunione, arrivò Puzzer, che aveva iniziato o a disertare le riunioni o ad arrivarvi in ritardo, accompagnato dai suoi seguaci, e ci disse di stare tranquilli e che il giorno seguente non sarebbe successo niente.”
Le rassicurazioni date da Puzzer vennero smentite però dai fatti: la polizia arrivò (le forze dell’ordine passarono dentro il porto, violandone lo status di zona franca internazionale) con tanto di idranti.
L’opera di sgombero avvenne piuttosto lentamente, anche grazie all’arrivo di molti cittadini a supporto dei portuali rimasti, che praticarono resistenza pacifica e passiva, fino a quando, in tarda mattinata, non partirono le cariche più decise che videro, assieme al largo uso degli idranti e dei manganelli, anche l’uso di candelotti lacrimogeni.
Alcuni lacrimogeni finirono pure nel cortile di una scuola.
Secondo Luca, “per fortuna, quello era il giorno del ballottaggio per le elezioni comunali di Trieste e, essendo la scuola sede elettorale, i ragazzi non erano lì.
In ogni caso, non avremmo mai pensato che lo Stato potesse arrivare a trattare così i propri cittadini”.
Le immagini dell’aggressione poliziesca fecero il giro d’Italia e non solo. Ai comunicati di solidarietà pubblicati da lontane realtà lungo la penisola, come per esempio quello pubblicato dal “Comitato contro la gestione autoritaria della Pandemia” di Napoli (che qualcuno diffuse anche in forma cartacea a Trieste), si sommarono messaggi di vicinanza e sostegno provenienti da ogni dove, pure dall’estero.
Una volta sgomberato il porto dalla gran parte dei manifestanti, sostanzialmente rimasti pacifici, furono migliaia le persone costrette a spostarsi per non beccarsi qualche colpo o per non venire asfissiati dai gas. Arrivarono momenti di caos e lì, di fronte alla scelta che poteva cambiare il corso degli eventi, qualcuno decise che era invece meglio defluire e radunare la massa nella distante Piazza Unità, ben presidiata da polizia e carabinieri in assetto antisommossa.
Marco Bertali, testimone diretto: “Durante le sgombero era tutto un marasma, però io, sapendo della decisione che avevamo preso alla riunione della sera prima (ovvero di occupare un altro varco, ndr), ho tentato di mettermi alla testa della gente che veniva scacciata dal presidio. Per un attimo si stava quasi riuscendo ad andare verso l’altro varco ma, proprio in quel momento, Puzzer chiamò la folla a recarsi in Piazza Unità (la piazza principale, lontana dai varchi portuali, ndr). E così si andò in Piazza Unità. Già lì, se si fosse veramente voluto dare un messaggio più forte, si sarebbe potuto gestire diversamente la faccenda.”
È chiaro che il porto era il luogo nel quale la protesta poteva veramente incidere: ostacolare la regolare attività dello scalo significava toccare gli interessi di grandi aziende e addirittura di Stati.
Il porto di Trieste era ormai diventato un vero e proprio simbolo da difendere.
Ciò che invece si fece, ad evidente vantaggio di chi voleva domare e spegnere la lotta, anche grazie all’opera da “pompieri” svolta da alcuni illustri esponenti del movimento, fu rimanere in una piazza a bollire per ore, abbindolati da promesse di trattative con il prefetto e irretiti in una fine trappola.
Il Coordinamento No Green Pass di Trieste, stando alla testimonianza del Bertali, si era detto contrario alla trattativa con il Commissario del Governo, ma ormai tale coordinamento – anche a causa della confusione – non era più in grado di gestire la piazza, che guardava solo a Puzzer come ad una guida sicura.
Fu così che i manifestanti si ritrovarono a vivere sulla propria pelle la strategia della “rana bollita”, mentre una piccola delegazione guidata dall’esausto Puzzer (delegazione in cui, stando alle testimonianze raccolte, si infilò furbescamente anche qualche personaggio che col movimento triestino non aveva nulla a che vedere) si incontrava con il Prefetto.
In tal modo si riuscì a domare la grande rabbia, che dopo lo sgombero era grande, focosa e minacciosa.
manifestanti in Piazza Unità a seguito dello sgombero, 18 ottobre 2021. (Foto di Andrea Vivoda)
Dulcis in fundo la sera, su proposta di alcuni funzionari di polizia e con il consenso strappato a Puzzer e alla piccola delegazione, i manifestanti vennero convinti a recarsi nella zona del Porto Vecchio per il pernottamento, in un luogo che sta dalla parte opposta rispetto al Porto Nuovo, ossia lontano dal luogo caldo. Una mancanza di allora fu, dunque, anche quella di non aver tentato di tornare lì in cui si poteva incidere e di essersi fatti vincere e raggirare troppo facilmente dalle scaltre autorità statali.
Si pagò la mancanza di una certa esperienza e accortezza politica, propria solo di una minoranza del movimento, laddove la gran parte delle persone continuava, nonostante tutto, a fidarsi del dialogo con le istituzioni e della loro presunta e naturale bontà.
Durante e dopo la giornata del 18 ottobre, continuò a prevalere nella massa una linea legalitaria che di fatto, seppur sostenuta da nobili principi, rinchiuse la lotta No Green Pass in un “recinto” fatto di autocontrollo, evitando così che si consumasse un’autentica rottura, a quel punto forse unica via rimasta per riuscire ad ottenere e realizzare qualche seria rivendicazione.
Quel 18 ottobre, a seguito del violento sgombero al molo VII, c’erano le condizioni per portare parte dei manifestanti ad “uscire dal recinto” (cosa che avrebbe potuto avere anche un seguito in altre città italiane). Questo i tutori dell’ordine lo compresero e, molto efficacemente, riuscirono a gestire e contenere la situazione, confinando il dissenso nella ben presidiata piazza centrale ed inaugurando la scenetta delle trattative, avvantaggiati anche da una certa “collaborazione”, probabilmente involontaria e fatta in buona fede, di taluni tribuni della plebe no pass che intrattennero le migliaia di persone presenti e ne spensero il fuoco.
Però al mattino, una piccola minoranza di manifestanti non si fece scacciare e tentò un’audace difesa del porto, incontrando una risposta molto decisa delle forze di polizia (sintomo che, per le autorità, anche quei pochi rimasti erano una spina nel fianco molto più fastidiosa delle migliaia di persone in Piazza Unità), che riuscirono comunque a “bonificare” definitivamente la zona solo a sera inoltrata.
Assai gravi furono certe dichiarazioni, pronunciate quel lunedì pomeriggio da persone che nella piazza centrale si ergevano a rappresentanti dei no pass, su queste persone rimaste in zona porto. Esse vennero screditate e definite “infiltrati”, quando invece erano coloro che, con coerenza e coraggio, tentavano di non far morire la fiamma della protesta.
Veicolare il pericolo in arrivo di infiltrazioni violente diventa, spesso e volentieri, uno spauracchio volto a spegnere preventivamente l’anelito delle proteste. Se infatti è giusto stare all’erta per non cadere complici delle trappole del potere, non si può nemmeno essere ossessionati dalla caccia all’infiltrato e vedere in tutti i casi di azioni forti e decise l’operato di agenti terzi.
Lo spettro degli infiltrati violenti, alimentato a dismisura dalla stragrande maggioranza dei canali, media e personaggi della cosiddetta controinformazione, induce moltissime persone a credere che l’unica forma di protesta legittima ed autentica sia esclusivamente quella ultrapacifica, spesso fino al ridicolo, e ligia in tutto e per tutto alle norme.
Chiunque abbia un approccio più deciso e “duro” alla mobilitazione viene, da molti, immediatamente identificato come possibile infiltrato o, comunque, come un soggetto pericoloso da isolare e bloccare.
Se è proprio con il paradigma securitario che i governi attuano un capillare controllo sociale è sempre in nome della sicurezza che vengono spente le reazioni di protesta e che viene resa passiva ed innocua l’opposizione, purtroppo anche da parte di molti che rappresentano o sostengono il dissenso.
Fiducia e speranza di un dialogo
Quel lunedì 18, la massa riuscì ad essere fermata e bloccata in piazza Unità e ciò è ascrivibile anche al fatto che nella maggioranza delle persone, nonostante la rabbia e lo sdegno, continuava ad esserci ancora la speranza nel dialogo con le istituzioni, lo Stato ed i suoi apparati.
La stragrande maggioranza dei manifestanti, al di là delle dichiarazioni formali, non ambiva a grandi cambiamenti, quanto piuttosto nutriva l’intimo (e comprensibile) desiderio di poter tornare alle condizioni precedenti la pandemia, in cui lo Stato era percepito come effettivo garante dell’ordine, difensore dei diritti e di quel diffuso e generale benessere di cui oggettivamente la popolazione italiana ha goduto per decenni.
Lo Stato, per farla breve, nonostante stesse imponendo una forma di “apartheid 2.0” con una violentissima campagna, godeva (e gode) ancora di una certa fiducia nella stessa popolazione che dal Green Pass e dagli obblighi vaccinali è stata vessata. Questa condizione ha fatto sì che le promesse (per quanto risultassero già farsesche dall’inizio) di dialogo con il governo, annunciate nel pomeriggio del 18, alimentassero le speranze dei più e placassero gli animi, dando tempo prezioso alle autorità che agirono per limitare al massimo i danni e gli effetti – a loro – collaterali dell’intervento di repressione.
La divisione: la nascita del “Coordinamento 15 ottobre”
Durante la mattinata del 19 ottobre, in Porto Vecchio, venne annunciata da Puzzer (e da altri personaggi venuti da fuori, alcuni dei quali sfruttarono l’occasione per conquistarsi notorietà – anche ricorrendo a comportamenti cinici e scorretti – tant’è che sono ancora volti noti del c.d. “dissenso”) la creazione dal nulla di un nuovo soggetto organizzato: il “Coordinamento 15 ottobre”.
Ecco il racconto di Marco Bertali su quel momento decisivo: “Nella notte tra il 18 e il 19 si consumò un ulteriore frazionamento del movimento. Al mattino del 19, prima di recarmi in Piazza Unità, dove tanta gente continuava a rimanere e dove avrebbe dovuto esserci un nuovo incontro in Prefettura, passai per il Porto Vecchio. Vi trovai delle persone su un rialzo che annunciavano ai presenti (che, seguendo le indicazioni date, pernottarono in quel luogo) la fondazione del Coordinamento 15 ottobre. E mi chiesi che cavolo stesse accadendo. Fui completamente spiazzato da questa ulteriore mossa. Lì si creò artatamente quest’altra cornice… proposero anche a me di aderirvi ma, siccome volevo capire per bene cosa stesse accadendo, presi tempo. Poi, riflettendo sulla situazione, decisi di non farne nulla e non aderire”.
Ciò divise ulteriormente la compattezza della piazza triestina ed oscurò il Coordinamento No Green Pass di Trieste, la realtà cittadina che era riuscita a portare in strada più di diecimila persone, ancora prima che i portuali scendessero in campo. La decisiva presenza di Puzzer nel neonato coordinamento attirò le attenzioni dei media e della massa; ciò fece sì che in quei giorni fossero le iniziative di tale nuova e fumosa entità a godere di autorità e seguito nella roccaforte anti green pass, di fatto esautorando i legittimi “rappresentanti” della piazza triestina che ne uscì spaccata, domata ed indebolita.
Anche se vogliamo credere che vi fosse buona fede, almeno per quanto riguarda Stefano Puzzer (3), risulta evidente il nefasto ruolo divisivo che tutto ciò ebbe sulla protesta e sul movimento.
Divisioni e spaccature, a volte determinate da futili personalismi ed egoismi, sono stati una costante nell’ampia compagine dei vari movimenti attivi contro il Green Pass. Quello che accadde a Trieste è stato un caso importante fra tanti.
I frazionamenti sono spesso una delle minacce più gravi per un movimento, e chi ha interesse a frenarlo o distruggerlo non può che approfittarne. Purtroppo il movimento No Pass è caduto anche sotto i colpi delle spaccature e delle scissioni intestine, troppo spesso autoalimentate dall’interno da figure egoiste ed ambiziose, troppo interessate ad un loro possibile tornaconto politico.
Il colpo di grazia: sabato 23 ottobre
Il 18 ottobre in piazza si disse che il sabato seguente, ossia il 23 ottobre, a Trieste sarebbero arrivati dei ministri a dialogare con una delegazione di rappresentanti “no green pass”, ruolo che venne interpretato appunto dal neonato Coordinamento 15 ottobre.
Inutile dire che l’incontro fu tanto inutile quanto umiliante. Luca lo ricorda chiaramente:
“L’incontro con Patuanelli fu una manfrina, e qui va detto che il dietrofront riguardo alla manifestazione fu una pugnalata alla schiena”.
Il riferimento è alla manifestazione, promessa ed annunciata sempre quel lunedì 18; essa avrebbe dovuto svolgersi nella città giuliana per “accogliere” la delegazione ministeriale.
Dati i fatti accaduti, una mole considerevole di persone sarebbe confluita in città (molte persone che erano venute a Trieste da altre regioni avevano deciso di fermarsi ed attendere tale evento), anche per pretendere un riscontro serio e concreto dai ministri e dal governo.
Essa venne però annullata dagli stessi organizzatori, ossia sempre il nuovo “Coordinamento 15 ottobre” e, quella che si prefigurava essere una grande ed importante manifestazione nazionale, sicuramente molto temuta dalle autorità data la grande adesione e la forte tensione presente allora, non si fece.
L’evento venne cancellato proprio adducendo a pericoli di infiltrazioni violente, una paura alimentata in quei giorni da vari media “alternativi” e da messaggi allarmistici diffusi su Telegram (con grande vantaggio del governo e della prefettura locale).
In un video l’ex rappresentante del CLPT disse: “Rimanete a casa“.
“Io Resto a Casa” non era il mantra governativo di obblighi e lockdown?
Il video dove Puzzer, allarmato e preoccupato dalle voci su possibili infiltrazioni, rese pubblica la disdetta delle manifestazioni di venerdì 22 e sabato 23.
“La paura era tanta, ma non si doveva cedere”, intuisce Luca… e difatti l’annullamento della manifestazione fu un vero colpo di grazia per tutto il movimento.
Delega delle proprie responsabilità e potenzialità
All’epoca, forse, vi era un’intima percezione che, per poter ottenere veramente qualcosa, ci volesse un atto forte. Tale profonda consapevolezza però entrò in contrasto con paure, timori, condizioni materiali e retaggi ideologico-culturali che remavano in senso opposto. Ciò che ne conseguì fu che collettivamente si ricorse, non coscientemente, al delegare la responsabilità – ed i rischi – di intraprendere un’azione di rottura con “l’ordine costituito” ad altri o altro.
E’ anche per questo che, emblematicamente, per i No Green Pass italiani i portuali di Trieste divennero eroi, sui quali concentrare tutte le aspettative e le responsabilità della lotta; è sempre per questo che per mesi migliaia di persone si appellarono, inutilmente, alle forze dell’ordine e ai militari affinché si rifiutassero di servire la giunta liberticida a capo del Paese e dare così un potentissimo segno di rottura.
Invece che cercare di rompere la condizione di impotenza in cui ci si trova, di credere nella propria forza, nelle proprie capacità e di perseguire, il più possibile, la propria autodeterminazione e prendere il duro impegno di farsi carico delle proprie responsabilità, e anche dei relativi rischi, ecco che risulta più facile delegare responsabilità e/o aspettative a uno o più salvatori, siano essi presidenti di potenze straniere, cardinali, avvocati, magistrati, parlamentari, politicanti e così via. Figure che poi, sistematicamente, chi in buona e chi in malafede, finiscono per gettare via la loro maschera da salvatore del popolo.
Per quanto sia difficile, sarebbe bene per le masse tentare invece di rompere quest’inerzia e ricercare una propria autodeterminazione, una propria coscienza, nonché realizzare la grandezza del proprio potenziale.
Conclusione
Qui abbiamo cercato di individuare, analizzando la peculiare mobilitazione triestina dell’ottobre 2021 – vero e proprio spartiacque per il movimento No Green Pass, che da lì in poi perderà progressivamente vigore e fiducia -, alcuni elementi (trattati nei vari paragrafi) che, secondo la personale interpretazione dell’autore di questo articolo, la portarono alla sconfitta. La ricostruzione dei fatti è avvenuta sia grazie alle preziose testimonianze raccolte a Trieste fra i volontari attivi nella causa No Pass e che hanno gentilmente accettato di darci le loro testimonianze, sia sulla base delle memorie ed esperienze dirette di chi ora scrive.
Lo scopo di questa analisi non è quello di gettare la croce addosso a qualcuno, bensì quello di comprendere e far conoscere alcuni fattori di debolezza che colpirono il movimento No Green Pass, questo per dare un contributo costruttivo e utile alla crescita politica, che crediamo debba necessariamente imparare e partire dagli errori passati.
Concludiamo questa fluviale disamina ricordando come sia la persona di Stefano Puzzer, sia i portuali triestini e il CLPT abbiano pagato duramente per la loro scesa in campo.
Alcuni portuali, tra cui lo stesso Puzzer, sono stati licenziati dopo i fatti del porto. Il CLPT, fino ad allora il principale sindacato tra i lavoratori dello scalo giuliano, è stato smantellato in un’opera punitiva condotta dalle autorità. Il clima in porto, dopo la cocente sconfitta del 18 ottobre, è diventato plumbeo e l’intimidazione ha raggiunto un livello tale che i lavoratori sono rimasti paralizzati e inermi di fronte ai licenziamenti e all’attacco contro il loro sindacato.
Qui esprimiamo la nostra solidarietà a tutti loro, così come a tutti i cittadini che ora sono sotto processo per esserci coraggiosamente stati in quei giorni.
Tutto ciò non potrà essere cancellato, ed è anche per questo che, dopo tre lunghi anni, è giusto parlarne ancora.
Di Konrad Nobile per Comedonchisciotte.org
18.10.2024
NOTE
(1) Il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, arriverà ad invocare ripetutamente le leggi speciali contro i No Green Pass, equiparandoli a dei terroristi.
https://lavoce.hr/adnkronos/no-vax-sindaco-trieste-chiedo-leggi-speciali-come-per-le-brigate-rosse
(2) “Coordinamento Lavoratori Portuali di Trieste”, sindacato che ha pagato la sua coraggiosa presa di posizione con un inaudito attacco da parte delle autorità, che dopo i fatti del porto hanno sostanzialmente distrutto tale realtà che oggi, di fatto, non opera più.
(3) Stefano Puzzer, per quanto alcune sue scelte siano criticabili, ha pagato un prezzo altissimo per il suo attivismo. Egli è infatti stato licenziato, assieme ad altri portuali, ed è rimasto disoccupato. Per quanto contrari a molte delle sue scelte di allora, non vogliamo qui in nessun modo attaccare la sua persona, che riteniamo essere buona e che crediamo aver agito sempre in buona fede.
Fonte: comedonchisciotte.org