Fine spiegato semplice.
Questa giornata del 25 giugno 2024 è una data che non dice niente a nessuno, qui in Occidente. Nessun significato, nessun riferimento, nessun episodio a cui legarla. Eppure è una data che noi, come Paese Italia, per esempio, abbiamo contribuito a rendere storica. Però le vicende che la rendono tale non sono state raccontate. Si perdono nei fumi di una narrazione intermittente, tronca, quando non apertamente falsa. Eppure gli ingredienti ci sono tutti: migrazione, petrolio, guerra, democrazia. Ma nella nostra mente ce li siamo disposti secondo un ordine sparso e non ne vediamo pertanto il filo che li tiene uniti e che ci porta dritto in Libia. La data di oggi è un decennale. Una ricorrenza sinistra in un mondo che ha perso i suoi equilibri e in un Mediterraneo sempre più caldo. Cosa successe dunque il 25 giugno 2014 in Libia? Forse qualcuno lo ricorda? La Libia post Gheddafi, in preda alle bande armate dalla NATO, cercava quel giorno una via o quella che sarebbe dovuta essere una via.
Una transizione verso il caos
Il periodo di transizione andava superato. L’8 agosto 2012 era stato istituito il Congresso Nazionale Generale, uscito da un voto popolare, tenutosi il 7 luglio 2012. A vincere le elezioni era stata l’Alleanza delle Forze Nazionali con il 48% dei voti. Un partito liberale moderato che spopolò ai seggi a scapito del partito legato alla Fratellanza Musulmana (che invece era salita al potere in Tunisia ed Egitto), il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, creato sul modello dell’AKP di Erdogan in Turchia, che arrivò secondo con il 10% dei voti.
Nonostante questa schiacciante vittoria però, l’Alleanza delle Forze Nazionali conquistò solo 39 seggi su 200, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo ne conquistò 17 e i rimanenti 144 seggi furono spartiti in sostanzialmente altrettante forze politiche in ossequio alla democrazia, al diritto di rappresentanza e soprattutto al caos. Il proposito del Congresso era quello di scrivere la nuova costituzione ed indire nuove elezioni in un periodo massimo di 18 mesi.
E così arriviamo alla data di cui oggi ricorre il decennale: il 25 giugno 2014. Quel giorno si tennero le ultime elezioni della Libia post-Gheddafi. In sostanza, dunque, oggi fanno 10 anni dacché in Libia non si vota. Conoscere questa notizia non è poco, dal momento che si tratta di un Paese che abbiamo bombardato al fine di esportarvi la democrazia. Ma conoscere i motivi del perché in Libia non si voti da 10 anni, credo sia interesse generale che però sfugge ai più. Lo sostengo serenamente perché constato la totale assenza di queste informazioni nel dibattito italiano, quando non la totale assenza del dibattito sulla Libia e punto.
Esportare la democrazia per boicottare la democrazia
Ma torniamo al 25 giugno 2014. Anzi, ai mesi che precedettero questa data. I 18 mesi a disposizione del Congresso Nazionale Generale furono spesi per spostare l’asse pian piano a favore della deriva islamista creando un clima favorevole alla Fratellanza Musulmana. Perno di questa operazione fu Nuri Busahmein, presidente del Congresso, berbero della città di Zuwara, tra le più ferventi sostenitrici della “rivoluzione del 17 febbraio 2011”, città costiera della Tripolitania da cui negli anni a seguire salperanno centinaia di migliaia di migranti verso l’Europa grazie alla commistione tra milizie e traffico illegale di petrolio ed esseri umani.
La presidenza di Busahmein è servita anche per chiudere un occhio sul proliferare di bande armate nel Paese, con l’arruolamento di migliaia di giovani libici alettati dagli alti guadagni, nel tentativo di mettere sotto controllo i pozzi di petrolio. Sin dai primi mesi del 2014 la città di Bengasi è di fatto occupata militarmente da gruppi armati islamisti tra cui Ansar al-Sharia (nell’ottobre 2014 sarà direttamente l’Isis a scendere in campo e a conquistare Bengasi, poi liberata dall’Esercito Nazionale Libico). Questo spinge il generale Khalifa Haftar, fino a quel momento a capo di alcuni reparti sparsi del dissolto esercito gheddafiano, a lanciare un’operazione militare per la liberazione della città chiamata “Operazione Dignità“. Il nucleo di questo piccolo esercito, che contava solo poche migliaia di unità all’epoca, andrà a costituire poi l’Esercito Nazionale Libico, votato dal Parlamento il 2 marzo 2015. Ma manca di raccontare come quel Parlamento è stato eletto.
Nel mentre che Haftar getta le basi per la resistenza libica ai gruppi islamisti, lo stesso dichiara ormai il Congresso Nazionale Generale decaduto, perché ormai in balia dei terroristi. Messo con le spalle al muro e costretto dagli eventi, il Congresso indice nuove elezioni per il 25 giugno 2014. La situazione nel Paese sta sfuggendo di mano. La gente vuole votare, ma la guerra civile infuria e solo il 18% degli aventi diritto raggiunge le urne. Se alle elezioni del 2012 avevano votato un milione 400mila libici, il 25 giugno 2014 votano soltanto 630mila elettori. Nonostante questo, i risultati furono una porta in faccia alle speranze di potere della Fratellanza Musulmana e dei gruppi islamisti. Così il Parlamento eletto, definito Camera dei rappresentanti, si riunisce per la prima volta il 4 agosto 2014 a Tobruk, sulla costa orientale del Paese, perché in quel momento sia Tripoli che Bengasi sono in mano ai gruppi armati.
La Fratellanza Musulmana attraverso alcuni deputati del Congresso non rieletti, va per conto proprio e a Tripoli, il 25 agosto, forte della protezione dei gruppi armati, viene istituito il Governo di Salvezza Nazionale, senza che nessuno lo voti (il primo aprile 2016 prenderà il nome di Alto Consiglio di Stato, organo coloniale non eletto che a Tripoli fa la veci del parlamento eletto che invece sta a Bengasi). Il 31 agosto 2014 successivo sempre a Tobruk, Abdullah al-Thani viene votato primo ministro dal parlamento eletto. Non paga, la Fratellanza Musulmana, braccio della Nato in quel momento, che a Tripoli controlla diversi organi di Stato con la minaccia delle armi, il 6 novembre di quell’anno impone alla Corte Suprema l’annullamento delle elezioni. Come la comunità internazionale abbia poi deciso di risolvere la situazione è oggi ancora la causa delle mancate elezioni in Libia. Perché da lì in poi è passato un concetto ingiusto e diffamatorio: quello che in Libia le elezioni non contino, ma conti di più la “rivoluzione del 2011“. In altre parole, che l’agenda delle potenze straniere conti più del voto dei Libici.
Il gioco di prestigio
Il 17 dicembre del 2015, dopo oltre un anno di stallo, con gli accordi di Skhirat, le Nazioni Unite a spinta USA decidono infatti che le parti in conflitto sono due: da un lato istituzioni votate dal 18% degli aventi diritto (causa guerra civile) e dall’altra le bande armate della fratellanza in quanto moralmente depositarie della Rivoluzione. In sostanza si è deciso di recidere la filologia del voto in Libia e di concedere potere politico a chi aveva solo un potere militare. Ed è così che Al-Thani, votato primo ministro con i voti del parlamento a Tobruk, da quel giorno diventa poco più che un amministratore di condominio, mentre Fayez al-Sarraj, non eletto da nessuno, a Tripoli diventa primo ministro. Questo gioco di prestigio perdura da allora, anche se ora a Tripoli c’è un nuovo primo ministro, Abdul Hamid Dabaiba, che doveva rimanere in carica fino al dicembre 2021, consegnando il Paese a nuove elezioni poi istericamente annullate ad una settimana dal voto.
Il primo comandamento dell’agenda Nato in Libia
Nella nostra testa ci sono ancora oggi due parti che si combattono in Libia: da una parte Tripoli, dall’altra Bengasi. Come se fossero Pisa e Livorno, Inter e Milan. In realtà non c’è nessuna differenza etnica o tribale sul campo. A Tripoli sta chi sostiene per interesse l’abominio storico chiamato “rivoluzione”, a Bengasi chi difende la democrazia e il popolo libico. Chi ha ruoli di responsabilità da anni ormai si è trasferito nel luogo dove sta più sicuro. I parlamentari della Casa dei Rappresentanti di origine tripolina oggi vivono a Bengasi, così come i terroristi di Bengasi oggi vivono a Tripoli sotto la protezione del governo Dabaiba. La gente? Abbozza di fronte all’occupazione delle milizie a Tripoli e gira a testa alta se invece risiede a Bengasi.
Questo da noi non si racconta, non è in linea con i comandamenti dell’agenda NATO. Comandamenti, il cui primo recita: «in Libia non conta la democrazia, conta l’occupazione militare del territorio e il saccheggio delle risorse». È in base a questo comandamento che la Stephanie Williams, diplomatico americano, in un’intervista a Lorenzo Cremonesi del dicembre 2021 sul Corriere della Sera, all’indomani del voto annullato, affermava: «In Libia il voto non è importante: più importante è la stabilità». È in base a questo comandamento che nel marzo 2022 l’ambasciatore americano a Tripoli, Richard Norland, ha usato l’espressione «causa di forza maggiore», pur di non fare il nome di Saif Gheddafi come causa della soppressione delle elezioni, per evitare che le vincesse e diventasse il prossimo presidente libico. Esattamente. Perché dal dicembre 2021, da quando è ritornato sulla scena pubblica, dopo anni di latitanza, Saif al-Islam Gheddafi, figlio del colonnello, su cui pende un mandato di cattura della Corte Criminale Internazionale ma scagionato dai tribunali libici, da allora le elezioni sono soppresse, rinviate a data da destinarsi. In ossequio al primo comandamento non scritto dell’agenda NATO in Libia: «il voto non è importante: più importante è l’occupazione».
Il decennio maledetto per noi
E così oggi sono 10 anni dalle ultime elezioni in Libia. Nel frattempo il vuoto politico che abbiamo causato recidendo la filologia del voto in Libia ha prodotto il traffico di esseri umani a Tripoli, i centri di detenzione della Tripolitania, la riduzione in schiavitù e la tortura a scopo di estorsione dei migranti. Ha prodotto il saccheggio del petrolio libico a favore di Italia e Turchia (40% di greggio illegale che scompare ogni anno). Ha prodotto il primo concreto sostegno militare dei governi italiani a gruppi armati, attraverso l’ospedale da campo di Misurata, dove le armi inviate nominalmente ai soldati italiani, passano di mano alle milizie di Tripoli, nell’indifferenza del dibattito nazionale.
Ha prodotto quel sofisticato meccanismo, perfezionato da Minniti e proseguito dai suoi successori, per cui noi diciamo di mandare soldi e motovedette a Tripoli per fermare i migranti, quando al contrario sono tutti strumenti per il contrabbando del petrolio che prosegue indisturbato da 10 anni, anzi protetto da missioni come Frontex o Irini, che dovrebbero impedire l’accesso di armi in Libia e proteggere i confini sacri dell’Europa, ma al contrario presidiano il furto delle risorse libiche.
Ha prodotto una recente nuova corsa agli armamenti in Libia che vede ormai sul terreno soldati e mercenari NATO a Tripoli fronteggiare sempre più militari della Wagner ed armamenti russi a Bengasi, sull’orlo di un nuovo conflitto per il controllo del Mediterraneo e del Sahel. Ha prodotto insomma il decennio maledetto che ha cambiato in parte anche la fisionomia al nostro Paese: economica, politica, sindacale, sociale, culturale. Ed è per questo che oggi, 25 giugno 2024, pur non sapendolo, noi Italiani ignoriamo un anniversario che ci riguarda, che ci chiama in causa, che ci inchioda. Ma noi non lo sappiamo.
[di Michelangelo Severgnini*]
* Autore del documentario “Una storia antidiplomatica” (2024, ’75), che racconta le vicende della Libia dalla “rivoluzione del 2011” e del documentario “L’urlo“, opera censurata che racconta il lato oscuro del traffico di migranti. Una storia antidiplomatica sarà trasmesso il 25 giugno 2024 alle ore 18 sull’emittente televisiva Byoblu.
Fonte: lindipendente.online