Fine spiegato semplice.
di Paolo Azzone
La faida tra medici e pazienti si inasprisce. Anzi, è ormai guerra aperta, se il presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici chiede e ottiene l’intervento dell’esercito per proteggere gli operatori sanitari dalla supposta ferocia dei loro pazienti. Del resto, non più di due anni sono trascorsi da quando il parlamento ha creato una nuova fattispecie di reato (art. 583 quater: carcere fino a 16 anni per lesioni al personale sanitario) per le aggressioni ai sanitari, mentre nuove proposte ancora più repressive e draconiane attendono di essere discusse dal parlamento.
Come si è potuto arrivare a questo? La fiducia del paziente in uno specifico medico o nell’istituzione sanitaria è un fondamento necessario della relazione che lega ogni paziente al medico che lo cura. Solo una fiducia profonda può permettere a un paziente di delegare a un medico la responsabilità della propria salute o addirittura della propria vita. È stato un rapporto delicatissimo, direi quasi sacro, per secoli, ma è da tempo in crisi.
La crisi sembra essere iniziata nella seconda metà del secolo scorso; in quegli anni la medicina faceva paura. Le conoscenze e le tecnologie in continua espansione della medicina moderna creavano, da un lato, un’asimmetria sempre più evidente tra l’impotenza ed il bisogno del malato e, dall’altro, la (purtroppo immaginaria) onnipotenza terapeutica del medico. Negli anni della mia formazione universitaria la ricostruzione di un rapporto di fiducia, di una relazione genuinamente umana tra medico e paziente appariva un’esigenza cruciale per il futuro della medicina e rappresentava l’obiettivo privilegiato degli sforzi della psicologia medica.
Purtroppo, però, queste istanze tramontarono rapidamente e il rapporto medico-paziente divenne molto presto oggetto di una ben diversa e, temo, interessata attenzione da parte di forze sociali dotate di grande influenza. Il primo segno della nuova tendenza si rese evidente negli anni ‘90.
Anzitutto comparvero e assunsero sempre maggiore importanza nella comunicazione e nei media estese campagne contro la malasanità. Mentre la sanità pubblica veniva via via definanziata, gli ospedali chiudevano e le relative risorse erano dirottate alla burocrazia sanitaria ed extra-sanitaria o al business degli armamenti, il dito accusatore veniva puntato sui medici. Nella narrativa proposta dai media i professionisti della sanità apparivano generalmente corrotti, incompetenti e in definitiva pericolosi. E così gli studi legali e le società di assicurazioni aumentavano ogni giorno i propri profitti.
Il rapporto medico paziente si tingeva sempre più di toni rivendicativi e ricattatori. I medici cominciavano a sentirsi minacciati, a difendersi; le responsabilità decisionali li spaventavano. Cominciarono ad affidarsi sempre più ad autorità lontane ed impersonali, cioè alle famigerate linee guida.
Questo fenomeno di deresponsabilizzazione non suscitava preoccupazioni nelle istituzioni che, anzi, lo incoraggiavano manifestamente. L’adesione, l’accoglienza acritica delle linee guida proposte dalle istituzioni era ed è offerta ai medici come unica via di scampo dal pericolo rappresentato dalla conflittualità medico-paziente.
E con la pandemia da COVID-19, ai medici devoti alle indicazioni del sistema è stata offerta la completa impunità per i reati commessi nell’esercizio della loro professione. Agli allineati si garantiva dunque una inquietante licenza di uccidere (sia pure involontariamente), mentre ai dissidenti si comminavano senza alcuna esitazione sospensioni e radiazioni. È evidente che provvedimenti come questi, non meno della tanto auspicata militarizzazione degli ospedali, sono destinati ad aumentare la diffidenza e la conflittualità strisciante tra i due segmenti che costituiscono lo spazio sociale della sanità: i professionisti sanitari, appunto, ed i pazienti.
L’entità delle risorse mediatiche messe in gioco e l’evidente impegno delle massime istituzioni sanitarie non lascia spazio ai dubbi: il rapporto medico paziente è fonte di un disagio e di una preoccupazione rilevanti per il potere. La politica e le istituzioni sembrano fare di tutto per infiltrarsi e per inquinare questo spazio interpersonale, per suscitare diffidenza ed ostilità. E ricondurre così il medico tra i funzionari dello istituzioni: anonimi ed impersonali esecutori di ordini e attuatori di linee guida al pari di prefetti, poliziotti, segretari comunali o burocrati delle ASL.
Non voglio qui certo negare che negli spazi sanitari si verifichino episodi di violenza Come psichiatra sono spesso chiamato ad intervenire e possibilmente risolvere situazioni di questo tipo. Senza dubbio, il paziente psichiatrico può essere violento. Il contenimento di pazienti in stato di intossicazione da stimolanti è spesso possibile solo mediante una cauta collaborazione con le forze dell’ordine.
Ma l’aumento degli infortuni tra i sanitari non può essere ricondotto solamente alla crescente diffusione delle sostanze stupefacenti. Il fattore chiave è piuttosto una generale riformulazione del ruolo sociale dello psichiatra e, più in generale, del medico.
Da un lato, la psichiatria è oggi investita in misura crescente di funzioni di controllo sociale e repressione della devianza. Mentre la legge Basaglia e le sue istanze antiautoritarie vengono nei fatti disattese, i servizi psichiatrici si occupano sempre più spesso di una vasta popolazione di delinquenti e tossicodipendenti, spesso privi di qualsivoglia patologia psichiatrica endogena. I programmi terapeutici sono sempre più spesso blindati da provvedimenti di libertà vigilata. In queste circostanze, al medico è richiesta non tanto la cura del malato, ma piuttosto il controllo dei suo comportamenti devianti.
Profonde trasformazioni hanno avuto luogo anche nei percorsi della medicina somatica. Il medico di Medicina Generale viene sottoposto a vincoli sempre più stringenti rispetto alla prescrizione di farmaci innovativi e di esami strumentali. Nel contempo, l’adesione del paziente ai trattamenti proposti diventa un tema centrale per la sanità pubblica: l’autonomia decisionale del malato diventa un problema.
Al medico l’istituzione sanitaria chiede di promuovere l’agente vaccinale e i programmi di screening anche se non ne condivide personalmente i principi ispiratori. Durante la recente pandemia il delicatissimo tema delle esenzioni da vaccino ha visto contrapposti uomini e donne che temevano per la vita propria e dei propri figlie e sanitari del tutto disinteressati alla salute individuale dei loro paziente e preoccupati solo di garantire i livelli di copertura previsti dai vari comitati scientifici.
La relazione umana e personale con il malato diventa allora sospetta. Le emozioni e l’affettività possono indurre il medico a venire incontro alle richieste personali del paziente. Gli impediscono di aderire freddamente e rigidamente alle direttive istituzionali.
In sintesi, se gli episodi violenti in Ospedale si fanno più frequenti, le ragioni non vanno certo o almeno non solo ricercate nel generale imbarbarimento delle relazioni umane che sembra caratterizzare la società contemporanea. La ragione di fondo è il tradimento da parte delle istituzioni sanitarie e, purtroppo, anche da parte di tanti professionisti, del rapporto di fiducia personale diretto che li legava a ciascuno dei pazienti a loro affidati.
Da qui occorre ricominciare: il malato deve tornare a sentire che è l’oggetto prioritario dell’interesse di chi lo cura. Deve essere certo che per il medico la sua salute, la sua vita sono infinitamente più importanti di linee guida, circolari ministeriali e obiettivi di budget. Con buona pace delle istituzioni sanitarie e delle loro strategie.
Dr. Paolo Azzone – Medico psicanalista
Fonte: comedonchisciotte.org