Fine spiegato semplice.
Riceviamo e pubblichiamo.
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Cari amici di Come don Chisciotte,
vorrei rispondere all’articolo che avete pubblicato il giorno 11 Aprile 2025, con il titolo “Lavorare sì, ma per salari da fame”.
Sono fondamentalmente d’accordo con l’impostazione dell’articolo e con buona parte delle sue conclusioni, ma credo che l’analisi dei fenomeni economici e sociali sottesi ai dati (inconfutabili) meriti un ulteriore approfondimento.
L’articolo già pubblicato esprime alcune tesi fondamentali che provo a elencare per punti.
1) I salari reali hanno subito una contrazione generalizzata.
2) L’occupazione è aumentata senza incidere sul costo del lavoro.
3) La causa sarebbe un annullamento quasi totale del potere contrattuale dei lavoratori
4) Le aziende raggiungono comunque un livello soddisfacente di utili.
5) Per ripristinare un sistema di distribuzione della ricchezza vivibile per il lavoratore occorrono, oltre alla lotta salariale, ripristinare la tutela dai licenziamenti, contrastare la delocalizzazione, annullare i vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea.
Il primo punto è un dato di fatto e non necessita di ulteriori commenti.
Il punto 2) invece merita di essere esaminato più da vicino.
La massiccia deindustrializzazione dell’economia italiana, operata a partire dal Britannia e seguenti (1992) ha profondamente alterato la dimensione del lavoro.
Il personale che disponeva di competenze specifiche non più utilizzabili che cosa ha fatto?
Chi ha potuto reimpiegarsi con mansioni affini è stato un sottoinsieme di lavoratori fortunati, altri hanno dovuto accettare impieghi più generici e di classe inferiore, altri sono rimasti disoccupati.
Come è stato spiegato molte volte negli ultimi quindici anni, il conteggio ufficiale dei disoccupati non è affatto realistico, perché si basa sul numero di iscritti alle liste di collocamento.
In realtà moltissime persone, gli “scoraggiati” non hanno neppure inserito i loro nomi in tali liste, mentre altri, piuttosto che accettare un lavoro miserabile e terribilmente sottodimensionato rispetto alle loro competenze, sono rimasti senza fissa occupazione, contando sul risparmio, la solidarietà familiare e qualche lavoretto in nero.
Uno spaccato attendibile della situazione occupazionale italiana lo ha fornito il censimento del 2014 che conteneva due domande riferite alle persone prive di fissa occupazione.
La prima era: “accetteresti un lavoro di qualunque tipo?” a cui ha risposto sì quasi il 13% della popolazione, cifra riportata nei dati ISTAT.
Ma la seconda era: “accetteresti un lavoro purché in linea con le tue competenze e le tue aspirazioni professionali?” a cui rispose sì circa il 25% della popolazione.
Questi due dati avvalorano quanto ho scritto sopra, cioè che il numero di disoccupati è molto più alto di quello ufficiale e che molti italiani nell’ultimo decennio hanno campato in qualche modo senza lavorare.
Quindi traggo la mia conclusione sul secondo punto: l’occupazione è aumentata perché un numero crescente di disoccupati è stato costretto ad accettare qualunque lavoro, anche indegno.
A provocare la “resa” dei disoccupati per orgoglio (“piuttosto che prendere due lire per fare un lavoro molto inferiore alle mie qualifiche non faccio nulla”) sono intervenuti alcuni fattori: la fine dei risparmi, la scomparsa di alcuni introiti familiari, soprattutto pensioni di anziani deceduti a causa del covid o della campagna vaccinale, aumento del costo della vita.
Passando al punto 3)
La tesi di ConiareRivolta, secondo cui l’occupazione è potuta aumentare (con contestuale diminuzione di offerta di mano d’opera) senza creare una pressione al rialzo sui salari solo grazie alla scomparsa delle tutele normative, è a mio parere poco accurata.
Innanzitutto perché la massa di disoccupati è comunque alta, ben più di ciò che affermano i dati ufficiali.
In secondo luogo perché la concorrenza al ribasso sull’occupazione è costantemente incrementata dall’espansione del ceto sotto la soglia di povertà italiano e soprattutto straniero.
Nonostante il drammatico aumento degli italiani poveri, l’afflusso costante di stranieri poverissimi e disposti a tutto risulta ancora più decisivo per tutti gli impieghi che non richiedono particolari qualifiche.
In terzo luogo, nonostante lo sviluppo sempre più massivo dell’automazione stia avvenendo sotto il nostro naso, l’articolo pubblicato non cita l’ovvio fenomeno della disoccupazione tecnologica.
Intravedo in queste dimenticanze un riflesso pavloviano di natura ideologica da parte di un’associazione che si identifica con l’etichetta di “sinistra”.
Per cui l’immigrazione non è nominata, e l’impreparazione tecnica dei giovani non è collegata al degrado della scuola, distrutta in primis dalla rivoluzione sessantottina che ha prodotto una generazione di insegnanti ignoranti come le bestie.
E per le normative?
Non voglio entrare nel dettaglio delle riforme perché il discorso sarebbe troppo lungo e meriterebbe una trattazione separata.
Pur concordando in generale che l’occupazione meriti delle tutele migliori di quelle attuali, ma chi ha distrutto le precedenti?
Governi cosiddetti di “sinistra”, nel fragoroso silenzio dei sindacati, a loro volta classificati di “sinistra”.
Del resto se il fascismo ha creato le pensioni, la sanità pubblica e l’IRI, era logico che gli antifascisti si adoperassero per distruggerli: la sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza saperlo. (Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente, 1922).
Battute a parte è ora di capire che queste etichette, destra e sinistra, vanno abbandonate se si vuole ragionare sui fatti e non sulle parole, condizione indispensabile per giungere a una comprensione della realtà.
Anche il punto 4) merita delle distinzioni e degli approfondimenti, perché l’affermazione generica che le aziende italiane facciano profitti soddisfacenti non è affatto vera.
Da ex titolare di una piccola impresa, posso vantare una conoscenza diretta e sufficientemente profonda della situazione imprenditoriale.
Fino a un decennio fa (ora non sono più aggiornato) la piccola media impresa italiana occupava quasi il 90% dei lavoratori del settore industriale.
Io, pur lavorando direttamente in azienda, non percepivo lo stipendio più alto; non perché avessi qualche dipendente strapagato (tutt’altro), ma perché non potevo permettermi di più.
Lo stabilimento era sito in un quartiere industriale e conoscevo un po’ dei miei vicini, i quali versavano più o meno nelle mie stesse condizioni.
Una grossa fetta dell’imprenditoria italiana, quella delle piccole aziende, che magari lavorano nel settore manifatturiero conto terzi o nelle attività di base, agricoltura allevamento e turismo, è costituita da società familiari o poco più, costrette a lottare contro i mulini a vento di una burocrazia sempre più invasiva che pretende adempimenti insostenibili, di una tassazione oppressiva e di un trattamento finanziario usurario da parte delle banche (qualcuno provi a calcolare gli interessi del “castelletto” per l’anticipo fatture!), il tutto per uno stipendio da impiegato (quando non succedono guai).
La situazione di una grossa fetta dell’imprenditoria italiana è tale per cui il rischio di impresa non risulta adeguatamente retribuito, il gioco non vale la candela, ed è per questa ragione che tante aziende vengono vendute, tipicamente a stranieri.
Diversa la sorte delle poche grandi aziende che lavorano in Italia, spesso di proprietà internazionale (i soliti grandi fondi di investimento e le solite grandi banche) con sede in qualche paradiso fiscale.
Quelle sì che fanno utili “soddisfacenti”, e per forza: non pagano tasse, ricattano lo stato minacciando di chiudere riducendo sul lastrico migliaia di famiglie, e le spese per gli adempimenti normativi si riducono a qualche briciola percentuale del fatturato, mentre per una piccola azienda risultano avere un’incidenza dolorosa.
L’articolo di ConiareRivolta recita: [gli interventi di smembramento delle tutele all’occupazione] hanno definitivamente svolto il loro compito affievolendo anche l’atavica paura dei padroni per la piena occupazione…
Mi sembra che gli autori dell’articolo citato siano rimasti indietro.
I padroni, quelli veri, non solo non sono interessati alla piena occupazione, ma, per bocca dei loro consulenti che si ritrovano a Davos, hanno espresso fobia per la piena umanità.
Secondo loro nel giro di qualche decennio la maggior parte delle persone sarà inutile, e hanno moltiplicato i programmi e i progetti per sfoltire la schiera di questi “mangiatori inutili”.
Per altro, considerando che nell’ultimo decennio le spese per interessi passivi dello stato italiano hanno oscillato tra il 15 e il 20% di tutte le entrate a bilancio, e che tali interessi vengono pagati per lo più alle solite grandi banche e ai soliti grandi fondi (di proprietà dei veri padroni), si può capire come i profitti dei veri padroni siano “soddisfacenti”.
Il meccanismo risulta essere questo: l’imprenditore paga le tasse allo stato-esattore, il quale le consegna ai veri padroni, e su chi è costretto a rivalersi l’imprenditore?
Con lo Stato non può, la banca gli ride in faccia, i prezzi non li può alzare troppo altrimenti i clienti non comprano più, alla fine resta solo il dipendente, il cui salario è per altro dimezzato dalle tasse.
Troppe volte il datore del lavoro è costretto a fare l’aguzzino dei dipendenti perché, a sua volta, è schiavo del sistema.
Non commento il punto 5) sui rimedi, che peraltro mi vede abbastanza d’accordo.
Sottolineo solo con piacere che viene auspicata la rimozione del vincolo di bilancio (la schiavitù ai veri padroni, istituzionalizzata e scritta in costituzione), strumento malefico di impoverimento generale.
Marx parlava dello sfruttamento del lavoratore che avviene nella fase di produzione, che gli amici di ConiareRivolta si siano tolti le fette di prosciutto dagli occhi e si siano finalmente accorti che il vero grande sfruttamento avvenga invece nella fase finanziaria, che condiziona a cascata il resto dell’economia?
Andrea Cavalieri
Fonte: comedonchisciotte.org