Fine spiegato semplice.
Negli ambienti politici europei e sui media è tornato a circolare insistentemente il nome di Mario Draghi come possibile candidato ai vertici delle istituzioni comunitarie, soprattutto dopo l’anticipazione, martedì 16 aprile, della sua attesa “Relazione sul futuro della competitività europea” che dovrebbe essere pubblicata dopo le elezioni europee di giugno e commissionatagli dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Draghi ne ha anticipato i contenuti in una conferenza di due giorni dedicata all’Europa sociale che si sta svolgendo a La Hulpe, in Belgio: l’ex capo della BCE ha parlato della necessità di un «cambiamento radicale» degli assetti e dell’organizzazione europea per rispondere alle sfide di USA e Cina e per adattarsi al «nuovo mondo» che, secondo l’ex presidente del Consiglio, non più quello pre-Covid, pre-Ucraina e pre-scoppio della crisi in Medio Oriente. Concetti che aveva già sottolineato la settimana precedente durante una serata di gala a New York in occasione della sua premiazione da parte dell’American Academy in Berlin: «Il numero e l’importanza dei cambiamenti che l’Europa deve intraprendere per preservare la sua prosperità e la sua indipendenza sono senza precedenti nella storia dell’Unione», aveva affermato. L’ascesa di Draghi è già sostenuta da diversi capi europei, in una inedita alleanza che va dal presidente francese Emmanuel Macron, al premier ungherese Orban, fino al governo italiano che, per bocca del braccio destro di Meloni nonché presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha affermato che Draghi «ha i titoli per ambire a ogni ruolo».
Nel suo discorso, l’ex banchiere centrale ha posto soprattutto l’accento sulla debole competitività europea, sul problema delle tariffe energetiche – ben più alte di quelle americane – e sulla spesa militare. Per Mario Draghi, l’Ue presenta difficoltà in tutti e tre questi settori: sul primo, in quanto «altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva», mentre gli USA «utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento». Tra le prime 18 aziende che nel 2022 hanno investito di più nel mondo, appaiono solo due aziende europee, entrambe tedesche ed entrambe del settore automobilistico, Volkswagen e Mercedes. A primeggiare sono le aziende americane soprattutto nello sviluppo software e nell’IA. Draghi ha messo in luce anche le alte tariffe energetiche che devono sostenere le aziende europee rispetto, ad esempio, a quelle americane e ha concluso quindi che «Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell’Unione». Terzo punto importante evidenziato da Draghi è la spesa per la difesa: l’idea è quella di aumentare la capacità europea riducendo l’importazione di armi dall’estero. Nel 2022-23, circa l’80% di armi e munizioni sono state importati da paesi extra europei: l’obiettivo è ridurre questa percentuale al 40% entro il 2035. Il cuore del cambiamento radicale di Draghi è sintetizzato in questo passaggio: «dovremo realizzare la trasformazione dell’intera economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’Ue; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale». In altre parole, si tratta del mondo post-globalizzazione. Per realizzare questi obiettivi, però occorrono ingenti investimenti e per questo Draghi spinge per il rafforzamento del mercato europeo dei capitali, oggi regolato a livello nazionale senza riuscire a offrire alle aziende europee i finanziamenti necessari per crescere e investire.
L’ex banchiere italiano è noto per aver svolto negli anni azioni politiche ed economiche controverse: tra le altre cose, è stato il pioniere delle privatizzazioni in Italia negli anni Novanta, quando buona parte degli asset pubblici sono stati svenduti a beneficio delle potenze anglo-americane; ha agito sotto traccia, come presidente della BCE per condannare la Grecia alla Trojka (Commissione europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), togliendo alle banche greche la possibilità di accedere alla “normale” liquidità della BCE e costringendole a fare affidamento sul più costoso Emergency Liquidity Assistance (ELA). Il che ha messo la Grecia sull’orlo del fallimento dopo che, con un referendum del 5 luglio 2015, il popolo greco aveva deciso di rigettare la volontà della Trojka. Negli ultimi anni, invece, come presidente del Consiglio italiano si è distinto per l’imposizione del Green pass e per le sue false affermazioni sulla vaccinazione: «Il green pass permette di avere la certezza di ritrovarsi tra persone non contagiose». Dichiarazioni smentite dai dati e poi dall’analisi comparativa tra i dati pandemici italiani e quelli degli altri paesi europei che non hanno introdotto il certificato sanitario. Ma l’artefice del famoso “whatever it takes” si ricorda anche per essere stato uno dei più accaniti sostenitori e ideatori delle sanzioni contro la Russia. Celebre il suo «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?». Dopo due anni di sanzioni della pace non c’è nemmeno l’ombra e l’economia russa non è fallita, ma anzi crescerà più di tutte le economie avanzate nel 2024, mentre l’Europa arranca e necessita, a quanto pare, di una nuova “cura Draghi”.
[di Giorgia Audiello]
Fonte: lindipendente.online