Per una Liberazione da ogni oppressione: la lettera di Yara, studentessa di Gaza in Italia

Spiegato semplice

Il 25 aprile è una giornata speciale in cui ricordiamo quando l’Italia è diventata libera da un governo cattivo chiamato fascismo. È importante pensare a questa giornata, soprattutto per ricordare le persone che ancora oggi combattono per vivere in pace e decidere da sole come vivere. Vogliamo raccontare la storia di Yara, una ragazza di 22 anni che studia medicina e viene da Gaza, un posto dove c’è stata una guerra. Yara è venuta in Italia per studiare, ma poco dopo il suo arrivo, nella sua città è scoppiata unae non ha potuto tornare a casa. La sua famiglia ha perso la casa e molte persone care a causa della guerra. Ora Yara sta cercando di aiutare la sua famiglia a scappare dae sta chiedendo all’Italia di poter restare qui per sicurezza. La sua storia ci fa capire quanto sia difficile la vita per i giovani a Gaza e ci chiede di aiutare raccontando le loro storie. Yara crede che se le persone si aiutano l’una con l’altra, si può costruire un futuro migliore pieno di pace e giustizia.

Fine spiegato semplice.

Il 25 aprile è il giorno in cui si ricorda la Liberazione dell’Italia dal regime fascista. Mai come oggi è importante celebrare questa ricorrenza, alzando in particolare lo sguardo sulle vicende delle popolazioni vessate da violenze e sopraffazioni, in lotta per recuperare il diritto alla Pace e all’autodeterminazione, primi ingredienti di una vera libertà. Per questo motivo abbiamo deciso di pubblicare la storia di Yara Khaled Abushab, studentessa di medicina di 22 anni di Gaza, arrivata in Italia il primo ottobre 2023 per un programma di studio della durata di un mese. Yara, nella sua terra, non è più potuta tornare, poiché, solo una manciata di giorni dopo il suo arrivo in Italia, Gaza è stata oggetto dell’aggressione militare israeliana, tutt’ora in corso. In Palestina la ragazza ha perso parenti, amici e colleghi di università, trucidati dalle bombe dell’IDF, che ha raso al suolo l’abitazione della sua famiglia. Mentre continua a sostenere gli esami universitari nel nostro Paese, cui ha rivolto una domanda di asilo ancora pendente, Yara sta cercando con ogni mezzo di aiutare i suoi familiari a scappare dalla Striscia. La sua storia fa da megafono a quelle di decine di migliaia di giovani di Gaza, sorpresi dagli orrori dalla guerra mentre coltivavano sogni e speranza di futuro.

Mi chiamo Yara Khaled Abushab, ho 22 anni e sono una studentessa di medicina. La mia storia inizia nel cuore di Gaza, dove sono cresciuta tra i ritmi impietosi delle guerre. La mia famiglia è originaria di Giaffa, che è stata costretta ad abbandonare nel 1948, a causa della Nakba. A Gaza sono quindi nata già come rifugiata. Qui, dal 2002, sono sopravvissuta a ben quattro guerre. Il desiderio di fare la differenza è qualcosa che mi porto dentro fin da piccola. L’istinto di diventare una persona che cura in un mondo plagiato dalle sofferenze è emerso durante la guerra del 2008. Facevo la seconda elementare. Ricordo la confusione a scuola e la paura negli occhi delle persone intorno a me, ma anche l’immagine che mi ha ispirata: i dottori e le ambulanze che accorrevano per aiutare i feriti. Ho capito che volevo essere come loro.

Grazie a uno studio serrato ho raggiunto i massimi voti al liceo, potendo così accedere agli studi di medicina. Il mio percorso accademico è finalmente iniziato a Gaza, all’università Al Azhar, dove ho scoperto la passione per lo studio e ho potuto continuare a coltivare l’impegno per la mia comunità, tramite attività di volontariato e supporto alla lotta per i diritti delle donne e alla valorizzazione dell’impegno giovanile. La mia passione per le lingue e le altre culture, che mi ha portata a conoscere e parlarne quattro (arabo, inglese, spagnolo e italiano) sembrava la chiave per trovare l’opportunità per fare la differenza nella vita degli altri. È con questo spirito che il primo di ottobre 2023 mi preparo a cogliere un’occasione unica: uno scambio universitario mi porta a Pescara, iscritta all’università di Chieti come studentessa per un mese. È un’opportunità grandiosa per fare esperienza e approfondire la mia conoscenza dei sistemi sanitari all’estero. Ma il 7 ottobre, appena una settimana dopo il mio arrivo in Italia, mi sveglio con la notizia di una guerra scoppiata nella mia città. Divento di nuovo una rifugiata, ma questa volta in un Paese diverso. 

Prima del 7 ottobre, vivevamo in una bellissima casa. Mio padre aveva lavorato duramente per 30 anni per costruirla. Ogni mattone, ogni trave, conteneva il peso dei suoi sacrifici e dei suoi sogni. Era piena di ricordi felici. Ma nel novembre 2023, dopo l’inizio della guerra, la mia famiglia ha dovuto lasciare il nostro quartiere, andando a vivere in una tenda. Hanno patito freddo e pioggia, senza avere a disposizione un bagno adeguato. La spazzatura si accumulava ovunque, perché non c’era nessuno che la raccogliesse. È stato un periodo molto duro per noi e per molte altre famiglie palestinesi. Alcune persone sono morte perché non avevano abbastanza cibo o acqua pulita. Quando tornarono, nel marzo 2024, scoprimmo che la nostra casa era stata distrutta, perché era stata trasformata in un punto militare dalle forze di occupazione israeliane. È stato straziante. Durante la guerra, non abbiamo perso solo la nostra casa. Mia zia e i suoi cinque figli sono stati uccisi dai soldati mentre cercavano di fuggire. Pensavano di essere al sicuro perché avevano una bandiera bianca che dimostrava che erano civili, ma sono stati comunque attaccati. Ho perso anche cinque amici della facoltà di Medicina che conoscevo e con cui vivevo da cinque anni. Sono morti anche tre miei giovani cugini di età inferiore agli 8 anni, quando la loro casa è stata bombardata dall’IDF. Le forze israeliane sono entrate nell’abitazione dei miei nonni, dove oltre a loro si trovava la mia zia più grande con le sue due figlie e il figlio. Quest’ultimo è stato ucciso davanti ai suoi occhi. Poi le hanno ordinato di andarsene con le figlie e i nonni, se voleva che sopravvivessero. Quando hanno iniziato a camminare, i militari hanno lanciato verso di loro bombe a gas.

La casa di Yara Khaled Abushab distrutta dalle forze di occupazione israeliane

Questa è Gaza, la prigione a cielo aperto che amiamo e adoriamo a prescindere dalle circostanze. Abbiamo studiato e lavorato duramente per far crescere la nostra piccola, bellissima città. Città che ha a malapena elettricità e subisce limitazioni pesantissime sull’acqua per colpa dell’occupazione illegale che dura da più di 75 anni e che si allarga, in maniera cancerogena, di giorno in giorno, mentre il resto del mondo sembra restare a guardare. In Italia così mi ritrovo persa nella confusione di un’altra guerra, la quinta che vivo in 22 anni di vita. Ma questa volta è diverso. Questa volta non sono lì. Sono da sola in un Paese che non conosco, mentre la mia intera famiglia, i miei amici e i miei cari sono a Gaza. Crescendo, e sopravvivendo a quattro guerre, mi ero abituata al suono dei bombardamenti sulla città. Stavolta però mi sento come se non potessi superare la distanza tra me e i miei. Stavolta mi assale un senso di impotenza e di disperazione. Perché durante ogni guerra che abbiamo vissuto insieme, la mia intera famiglia si raccoglieva in una stanza in modo che, se fossimo morti, saremmo morti tutti insieme. E nessuno di noi avrebbe sofferto il lutto per gli altri. Stavolta non sono nella loro stessa stanza e nemmeno nel loro stesso Paese. Lotto con un senso di colpa che mina la mia salute psicologica. 

I giorni sono diventati settimane e le settimane mesi. Mi ritrovo a navigare nell’incertezza di essere sfollata in un Paese straniero, alla ricerca di asilo in un posto più sicuro per costruire la mia vita. Stanca e senza casa, mi sono aggrappata alla speranza di riunirmi con la mia famiglia e ricostruire le nostre vite distrutte, sognando di diventare una dottoressa. Nel frattempo, l’unico modo che i miei familiari hanno per uscire da Gaza è di raccogliere più di 10mila dollari a persona per pagare le autorità egiziane che controllano il confine tra Palestina ed Egitto. Mentre, come tanti altri giovani, mi trovo a destreggiarmi tra le difficoltà impossibili di questa situazione, chiedo alla popolazione italiana di condividere le nostre storie, nella speranza che la consapevolezza possa aiutare a costruire un futuro diverso per la popolazione di Gaza. 

Oggi, mentre mi muovo su questo filo che collega Gaza e l’Italia, ho una fede incrollabile nella solidarietà collettiva. Porto con me le cicatrici della guerra e l’eco della resilienza che mi definiscono. Davanti ho una strada piena di incertezze e a ogni passo mi ricordo delle innumerevoli vite che abbiamo perso, dei sogni spezzati dalla guerra. Ma rimango determinata. Cerco un futuro che si basi su pace e giustizia, e voglio costruirlo anch’io. Credo che lo spirito umano possa resistere e che la solidarietà superi i confini geografici. Che il mio viaggio da Gaza in Italia non sia solo una storia di sopravvivenza, ma la riprova della forza della speranza e della compassione.

[Yara Khaled Abushab – traduzione di Stefano Baudino]

Fonte: lindipendente.online

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